
I muri dipinti di San Lorenzo. Tra simboli della tradizione e temi sociali
San Lorenzo è uno dei quartieri di Roma con la maggior concentrazione di opere di Street art. I temi sono dei più vari e moltissimi sono gli artisti che hanno lasciato qui la propria firma.
Camminando per le vie del quartiere San Lorenzo non è difficile imbattersi in miriadi di opere che oggi vengono riunite sotto il nome di Street art. Sono disegni, scritte, dipinti realizzati su pareti di edifici, su facciate cieche di palazzi mai ricostruiti, sulle saracinesche dei negozi o sull’arredo urbano. Nell’arte di strada da sempre le opere sono realizzate su ogni tipo di supporto, ma quelli che a San Lorenzo colpiscono maggiormente sono i grandi murales, dipinti su tutta l’altezza degli edifici. Da Sten&Lex a Leonardo Crudi, solo per citarne due tra i più famosi, questi artisti scelgono il quartiere romano per realizzare le proprie opere. Molto spesso la commissione è da parte di enti pubblici, come nel caso di Tellas, che realizza il primo murale su un edificio appartenente all’Università La Sapienza, nello specifico sulle pareti della facoltà di Psicologia in via dei Marsi. Il progetto è frutto di un accordo tra il II Municipio e l’Ateneo, per celebrare i 50 anni dalla nascita dei corsi di laurea in Psicologia in Italia. “La percezione del paesaggio” si ispira alle forme geometriche e squadrate che compongono questo edificio, dalle linee nette e taglienti, e le ripropone in forma astratta, limitando le cromie al bianco e al nero.
Questa prima collaborazione tra Università e street artist è il segno evidente che l’arte urbana sia utilizzata come strumento sì per decorare, ma anche riqualificare determinati contesti. A Roma sono numerosi gli esempi dell’uso dell’arte pubblica come elemento risanatore o come spunto di riflessione per tematiche sensibili dal punto di vista sociale. Tra questi il murale “Usa la bici” in via dei Peligni di Simone Ferrarini, in collaborazione con il collettivo Fx, che invita ad un uso più consapevole dei mezzi non inquinanti come la bicicletta. La grande parete su cui è realizzato evidenzia come l’arte di strada erediti dal Graffiti-Writing degli anni ’70 la scelta degli spot più ambiti, difficili da raggiungere e che redano l’opera visibile a chiunque.
Non sempre però la realizzazione di un’opera nasce da nobili intenti; viene infatti mossa l’accusa alla Street art di edulcorare e nascondere problematiche di vario genere, come quelle legate alla gentrificazione ad esempio. Agli occhi dell’osservatore non c’è molta differenza tra un murale nato per volontà popolare o dell’artista e uno commissionato da costruttori o investitori; ciò che lo distingue è però la finalità: spesso alcuni pezzi sono autorizzati nella speranza di facilitare l’inserimento di un fabbricato in contesti tipici, fragili o comunque ben diversi dalla natura della nuova costruzione, oltre che di farne crescere il valore immobiliare.
Eccetto rari casi, a San Lorenzo l’arte urbana è in continuo dialogo con il territorio, da questo trae ispirazione, ne rispetta le tradizioni o le usanze e ne evidenzia le simbologie caratterizzanti. Esemplare in tal senso è l’opera “Patrimonio indigeno” in via dei Piceni, dell’artista Lucamaleonte, che ritrae i simboli principali del quartiere: la graticola, strumento del martirio del santo, un capitello che rimanda all’antica basilica di San Lorenzo fuori le mura, il corvo e i crisantemi che si riferiscono al cimitero del Verano. Spiccano poi sulla facciata che ospita l’opera la mano della dea Cerere che stringe delle spighe, offerte alla popolazione in quanto divinità della terra, della fertilità e dei raccolti e il picchio, animale simbolo dei Piceni. Il papavero ricorda i partigiani e i residenti della zona, che contrastarono il fascismo. Il serpente e un fascio di alloro si riferiscono alla vicina Università la Sapienza. Il murale quindi dialoga con il quartiere e sottolinea il senso di appartenenza attraverso i simboli.

L’opera di Lucamaleonte è stata realizzata su un edificio che mostrava le tracce della guerra; è facile trovare infatti tra i palazzi di San Lorenzo molte facciate cieche che, segno dei bombardamenti e di mai avvenute ricostruzioni, vengono rilette e trasformate in tele per realizzare i grandi murales contemporanei. È il caso dell’opera di Guerrilla Spam in via degli Equi, divisa idealmente in tre parti e che rappresenta una delle opere più imponenti ad oggi realizzate nel quartiere. La parte sinistra del murale è dedicata all’occidente e si ritrovano i simboli del bombardamento di Roma del ’43, mentre la parte destra è dedicata al Medio Oriente, per ricordare le attuali guerre in corso. Nella parte centrale la grande figura accoglie all’interno del suo corpo tutti i popoli della terra, una sorta di Madonna nera o Madre-terra, a cui corrisponde il nodo di Salomone: simbolo di continuità e unione tra i popoli. Guerrilla Spam si serve di metafore, spunti e riferimenti, legati al luogo e non, per riflettere sull’attuale periodo storico sottolineando le atrocità e l’assurdità di ogni tipo di conflitto armato, a prescindere da epoca o luogo.
Opera simile negli intenti è “C’è posto per tutti, nessuno escluso”, realizzata da Luogo Comune in via dei Luceri. Nelle figure sono rappresentate caratteristiche differenti, tutti sembrano accumunati dalle diversità etniche o generazionali. L’idea è quella di rappresentare le associazioni, gli spazi sociali autogestiti e le realtà che rappresentano gli attori sociali più attivi del territorio. Luogo Comune fa riferimento a Nuovo Cinema Palazzo, Spazio Esc, Atletico Popolare San Lorenzo, che ogni giorno combattono contro il fascismo, il razzismo, il sessismo ma il cui ruolo è spesso al centro di complessi e delicati dialoghi con istituzioni e cittadini.
San Lorenzo è storicamente un quartiere attivo socialmente e sensibile a certi temi, negli ultimi anni anche le opere di Street art hanno cercato di educare riguardo il problema della violenza di genere. In un’area circoscritta di pochi metri, tra via dei Sardi e via dei Sabelli sono state realizzate molte opere per celebrare la figura femminile. Nel 2018 Luca Ximenes, in arte Desx, ha dato vita a “Mai più violenza sulle donne” in cui quattro figure dai corpi evanescenti si tengono per mano, fluttuano come se fossero presenti ed assenti allo stesso momento. Molto significativa è la pittura del 2012 in cui 107 silhouette sono dipinte sul muro
perimetrale del campo da calcio della zona. Ad una prima vista non comunicano il senso di tragicità insito nell’opera: ogni sagoma corrisponde ad una delle 107 donne uccise dal 1° gennaio al 24 novembre 2012 in Italia, vittime di femminicidio.
Le donne e numerose bambine sono anche le protagoniste del murale di Alice Pasquini in via dei Sabelli. Il senso di quest’opera è però più sognante: il titolo “La strada la trovi da te” rimanda ad uno sguardo positivo sul futuro. Tipiche del suo repertorio sono le figure femminili irriverenti e curiose, ritratte in atteggiamenti quotidiani e naturali: due innamorati che si baciano, una bambina sul monopattino, un aquilone che vola, il tutto tenuto insieme da una donna che disegna a matita queste immagini. Alicè sceglie i propri soggetti per contrastare la banalizzazione del corpo femminile tipica delle immagini contemporanee e lo fa in sintonia con il paesaggio circostante, utilizzando l’arancione, ispirandosi e riprendendo la tinta degli edifici della zona.
Molte delle opere presenti sui muri di San Lorenzo hanno significati profondi e fortemente legati alla storia, alle tradizioni e ai simboli del quartiere, segno di particolare attenzione da parte degli autori al dialogo tra l’opera e il tessuto visivo ma soprattutto sociale di questo territorio. Purtroppo in alcuni casi ciò non avviene e risulta chiaro che le finalità sono tutt’altre: inevitabilmente le immagini, puramente decorative, restano completamente sconnesse dal contesto, svelando in alcuni casi le ragioni opportunistiche e speculative che le hanno generate.

Il Pastificio Cerere. La fabbrica che si fece ateliers
Nell’opinione pubblica, quando si parla del binomio arte/quartiere di San Lorenzo viene subito alla mente il Pastificio Cerere. L’edificio, in via degli Ausoni, tra via Tiburtina e Piazza dei Sanniti, fin dalla sua nascita è strettamente legato al contesto del luogo.
Nato da alcune modifiche apportate dall’ingegner Pietro Satti a due corpi di fabbrica già esistenti, la struttura apre le porte per la prima volta nel 1905 come Molino e Pastificio intitolato a Cerere, dea delle messi. La storia industriale dello stabile prosegue fino al 1960 quando, con la chiusura definitiva, si dà il via alla sua riconversione che si inserisce nel processo genetico del quartiere.
Dopo la sua dismissione, Felicina Ceci figlia del proprietario dell’ex fabbrica Pietro Ceci, insieme alla sorella Adriana, incomincia ad affittare alcuni dei locali come magazzini di calzature, vestiario e medicinali. È solo nel 1973 però, che il più importante reperto di archeologia industriale di San Lorenzo inizia la sua vera riconversione: da fabbrica a laboratorio artistico. In quell’anno infatti il Pastificio inizia ad accogliere artisti emergenti: Nunzio Di Stefano, appena diciannovenne, è il primo a stabilirvisi con il proprio studio. La signora Ceci, già amica del futurista Giacomo Balla, è lieta di accogliere un artista nei suoi ambienti e incoraggia anche altri arrivi di questo tipo. Nunzio occupando inizialmente l’edificio con dei compagni sceglie come suo studio una stanza nell’ala sinistra all’ultimo piano.
La scelta del posizionamento d’altronde è imposta dal fatto che quella all’epoca è l’unica porzione dell’edificio ad avere il pavimento. Al suo interno permangono le vesti industriali e la sua storia risuona ancora nell’ampia chiostrina, nei macchinari metallici, nei montacarichi utilizzati per spostarsi tra i vari piani, tra le passerelle e nei ballatoi. A distanza di pochi anni però per motivi vari l’artista si ritrova da solo; inizia così a cercare delle nuove personalità con cui condividere lo spazio. È allora che all’accademia di Belle Arti, dove frequenta il corso di scenografia di Toti Scialoja, raccontando di questo luogo con ampi spazi luminosi, conosce Dessì che lo mette in contatto con un suo amico in cerca di un luogo dove stabilirsi: Giuseppe Gallo.

È così che nel 1977 quest’ultimo prende sede nell’Ex Pastificio e inizia a condividere lo studio con Nunzio. Grazie a questa nuova presenza anche Gianni Dessì comincia a frequentare l’edificio e nell’arco di poco tempo vi si trasferisce bonificando una porzione del quarto piano. Dopo poco anche il terzo piano viene ristrutturato grazie all’arrivo di Bruno Ceccobelli e Marco Tirelli. Nel 1981 anche Pizzi Cannella inizia a frequentare il Pastificio Cerere perlopiù come ospite di Nunzio e, affascinato da questo luogo, decide di insediarvisi anche lui. Quest’ultimo d’altronde sostiene che trovandosi tra l’università, la stazione, l’ospedale e il cimitero, ossia quei luoghi rappresentanti i momenti cruciali della vita, essere nel quartiere di San Lorenzo e più nello specifico al Pastificio è come trovarsi al centro del mondo.
Pur condividendo gli stessi spazi, gli artisti comunque non sono uniti da alcun manifesto; il loro è un sodalizio tra personalità che conoscono la propria vocazione e cercano degli interlocutori coinvolti nella stessa pratica del fare, con i quali poter aprire un confronto ma non un lavoro comune. Per questo è da ritenere assai controversa la definizione che negli anni li ha etichettati come gli artisti della “Scuola di San Lorenzo”. Se da una parte non si trova immediato riscontro nell’identità eterogenea del gruppo, dall’altra l’appartenenza al luogo è innegabile. La scelta dell’edificio come luogo di residenza e lavoro infatti avviene in modo del tutto spontaneo; è il risultato di convergenze, amicizie, sodalizi e matrici comuni vissute negli anni precedenti come il corso all’accademia di Toti Scialoja, l’esperienza de La Stanza e la “condivisione” di alcuni galleristi come Gian Enzo Sperone, Ugo Ferranti e Fabio Sargentini.
È con la mostra Ateliers del 1984, promossa dal sindaco Giulio Carlo Argan e dall’assessore alla cultura Renato Nicolini, e curata da un allora giovane Achille Bonito Oliva, che le porte del Pastificio vengono spalancate e gli spazi creativi aperti al grande pubblico, che viene a conoscere e toccare con mano l’esperienza che sta prendendo piede nel quartiere. L’esposizione, ricordata come un evento straordinario, si svolge al di fuori da ogni schema predefinito: non sono le opere ad uscire per approdare sui muri di una galleria ma è la gente che va a “trovarle” negli studi.
In questa occasione, inoltre, per assecondare una consuetudine del curatore, che più di una volta aveva scelto l’immagine di un’opera del passato per identificare le sue mostre di arte contemporanea, il 15 dicembre 1983 viene scattata una foto di gruppo. Quest’ultima si ispira al dipinto di Courbet rifiutato al Salon del 1855, che lo stesso autore aveva intitolato Atelier du peintre, allégorie réelle déterminant une phase de sept années de ma vie artistique. Come avviene nel dipinto così anche nello scatto di quell’anno tra i sessantatré personaggi immortalati vi sono artisti, critici, storici dell’arte, scrittori, editori, filosofi, amici e persino due cani, quasi a voler sottolineare l’affermazione di un soggetto collettivo.
La fabbrica di San Lorenzo dagli anni Settanta in poi, come è stato già detto, si è trasformata dunque in un centro propulsore di arte contemporanea. Nel corso del tempo, oltre agli artisti storici molti pittori, scultori, critici, galleristi, intellettuali ed esponenti del mondo dello spettacolo hanno trovato casa tra queste mura e hanno fatto sì che quel processo di condivisione iniziato negli anni Settanta, per caso, continuasse fino ai giorni nostri. Si ricorda per esempio la nascita nel 1986 del “Centro di Cultura Ausoni” gestito dal critico Italo Mussa e Arnaldo Romani Brizzi, entrambi sostenitori della pittura colta, una pittura figurativa che implica il ritorno ad iconografie e tecniche esecutive tradizionali; l’instaurazione nel 1993 dello spazio espositivo “Studio Aperto” a cura di Luigi Campanelli e nel 1995 della galleria di Pino Casagrande. È solo del 2002 invece l’idea di dotare l’edificio di una Fondazione, poi nata nel 2005 per volere del suo presidente Flavio Misciattelli e che vede oggi Marcello Smarrelli come direttore artistico e Claudia Cavalieri come coordinatrice delle mostre.

La galleria d’arte come vettore. Intervista a Gilda Lavia
La galleria Gilda Lavia è presente nel quartiere di San Lorenzo dal 2018 e negli anni è divenuta un punto di riferimento per il territorio. Nella nostra intervista, la gallerista ci racconta il dietro le quinte delle ultime esposizioni e la sua visione sul mondo dell’arte.
Dal 2018 prende vita nel quartiere di San Lorenzo la sua omonima galleria, volta alla promozione di artisti emergenti e non, italiani ed esteri. Come mai, nonostante le sue origini toscane, ha scelto di aprire la sua galleria a Roma e in particolare nel quartiere di San Lorenzo? Quanto crede sia importante il ruolo delle gallerie d’arte su questo territorio?
Sono arrivata a Roma per ultimare i miei studi in ambito cinematografico ed ho iniziato subito dopo a lavorare nello stesso settore come coordinatrice di produzione. Dopo sette anni ho scelto di rimanere in quella che ormai consideravo la mia città e di dare vita a ciò che mi appassionava ed è nata galleria Gilda Lavia. Credo che San Lorenzo sia uno dei quartieri storici più interessanti a Roma, dove l’arte ha sempre avuto grande spazio. Un quartiere giovane ed innovativo grazie alla presenza di una delle più importanti Università italiane e alla nascità, negli anni ’80, della “Scuola di San Lorenzo”. Penso che ci sarà una forte possibilità di assistere, in un prossimo futuro, alla nascita di nuovi spazi dedicati all’arte.

La sua ricerca di artisti si concentra prevalentemente su coloro che lavorano attraverso una ricerca concettuale, artisti che pongono delle riflessioni sulla nostra società, analizzandola sotto declinazioni differenti. Come mai ha fatto questa scelta? Secondo la sua visione qual è il ruolo dell’arte in ambito sociale?
Mi piace sottolineare sempre che, a mio avviso, “l’arte debba servire a qualcosa”. Quando una persona che visita una mostra in galleria torna a casa arricchita e stimolata alla riflessione, il mio ruolo ha avuto un senso. Credo che questa sia la missione del gallerista per la società, un piccolo contributo che con il tempo può sicuramnte portare a qualcosa di buono non solo per l’artista ma anche per la comuità.

Nella retrospettiva in corso in galleria “A Lâmina e a Língua” la prima mostra personale in Italia dell’artista e danzatrice Élle de Bernardini, viene affrontata la tematica della condizione delle persone trans, che in Brasile, paese di origine dell’artista, subiscono forti discriminazioni e hanno un’aspettativa di vita molto bassa. In particolare, nell’opera Operação Tarântula si fa riferimento ad un’operazione organizzata nel 1987 dalla polizia di Stato di San Paolo contro le persone trans, le quali tenevano le lame delle lamette sotto la lingua per difendersi. La mostra lancia un messaggio importante, ci obbliga a prendere atto di una situazione forse non così lontana da noi, quale impatto secondo lei possono avere o dovrebbero avere tali retrospettive sul pubblico in galleria?
Ho constatato che molte persone non erano al corrente delle condizioni subite dalla comunità trans in Brasile. Il luogo comune vuole che queste persone siano ben accette nel loro paese ed invece, ancora oggi, ogni due giorni una persona trans muore in Brasile perchè uccisa. Spero davvero che mostre come queste siano uno spunto di riflessione per chi le fruisce. “A Lâmina e a Língua” è un’esibizione di forte impatto che credo non passerà inosservata proprio per il tema trattato.

Qual è secondo lei oggi il ruolo della galleria d’arte e soprattutto del gallerista nel sistema complesso dell’arte?
Come già anticipato precedentemente, credo fortemente nell’utilità dell’arte. Che abbia un contenuto sociale, di denuncia, di protesta o semplicemente di pura bellezza, quello che l’arte deve fare è raccontare. La galleria è quel vettore tramite il quale l’artista può esprimersi e quindi arrivare a tutto il pubblico interessato. Il gallerista deve solo aiutare questo processo.
In un periodo storico in cui è così complesso viaggiare e conoscere nuove realtà, come ha dovuto evolversi la galleria per scoprire nuovi artisti e opere d’arte e quali sono le modalità con cui sceglie gli artisti?
Ovviamente la rete è stata assolutamente di supporto in un periodo in cui muoversi era impossibile. Trovo anche interessante scoprire il lavoro degli artisti tramite gli occhi del curatore, a volte sono proprio loro a trovare tematiche e significati che forse neppure l’artista stesso coglie subito. Cerco sempre di seguire una stessa linea nella scelta dell’artista, è importante la tematica che tratta e il modo con cui si esprime ma l’elemento fondamentale che non deve mancare è l’emozione.