
Pietro Ruffo (Roma, 1978) è uno dei giovani artisti italiani più apprezzati; laureato in architettura all’Università degli Studi Roma Tre, ha vinto nel 2010 il Premio New York con una borsa di ricerca presso l’Italian Academy for Advanced Studies alla Columbia University. L’arte di Ruffo è essenzialmente legata agli elementi base della sua formazione da architetto: il progetto, la carta e il disegno. Nella nostra intervista gli abbiamo chiesto del suo rapporto con il quartiere di San Lorenzo e molto altro…
Il suo studio è al Pastificio Cerere, un luogo fortemente caratterizzato da una connotazione artistica, dove è nata la cosiddetta scuola di San Lorenzo. Lei come si pone in rapporto con questa tradizione con la quale non solo condivide lo stesso spazio ma anche la stessa scena artistica? Sente di appartenere ad una particolare corrente o scuola?
Io sono arrivato a San Lorenzo nel 2003, prima lavoravo in campagna in uno studio isolato. Mi sono trasferito perché il presidente della Fondazione Pastificio Cerere, Flavio Misciattelli, aveva bisogno di qualcuno che gli potesse dare una mano a sistemare alcune parti del palazzo e in cambio mi diede un piccolo studio. Il passaggio dal lavorare in campagna, da solo, al Pastificio Cerere è stato molto importante per me e per il mio lavoro. Qui ho avuto la possibilità di conoscere i maestri che citavi, che in modo estremamente generoso hanno condiviso con me la passione per il loro lavoro e le loro ricerche. Osservando questi artisti ho capito come questo, come qualsiasi altro mestiere, sia un mestiere basato nella quotidianità, che non esiste la favola bohémienne dell’artista che si sveglia di notte e crea di getto un capolavoro. Poi ho conosciuto artisti della mia generazione con cui ho fatto tantissimi progetti, proprio grazie alla Fondazione Pastificio Cerere. San Lorenzo era diventato per me una specie di falansterio, qui trovavo tutto: la mia passione per l’arte, i miei amici, che erano anche loro degli artisti, bar, ristoranti, tutto quello di cui avevo bisogno era qua.
Trasferirmi è stato un cambio netto per me e per il mio lavoro. Inizialmente, infatti, il mio lavoro era legato alle tematiche di mio nonno, Francesco del Drago, un pittore astratto-geometrico, quei primi anni sono stati un po’ nel suo solco. Una volta arrivato qua ho cambiato completamente modo di lavorare, ho iniziato a disegnare molto di più e ad abbandonare un po’ il colore per concentrarmi su temi più legati alle mie passioni – la storia, la società, la politica. Arrivare al pastificio è stata una bellissima esperienza e lo è ancora in questo momento, insomma, è veramente un luogo di grande scambio, ideale per fare questo mestiere.

Una tematica che fa da fil rouge tra tutte le sue opere è il tema della libertà intesa in senso lato come libertà collettiva, spesso contrapposta a quella individuale. In base agli studi condotti alla Columbia University e alla tematica delle migrazioni che sta portando avanti con i suoi lavori più recenti, esiste a suo avviso una condizione in cui queste due realtà possano coesistere?
Il tema della libertà ha impegnato moltissimi anni del mio lavoro e attraverso la passione e la mia ricerca, condotta alla Columbia University grazie ad una borsa di studio, sono riuscito ad approfondirlo studiando alcuni filosofi liberali e intervistando giovani filosofi di varie parti del mondo. La cosa interessante di questo tema è che più lo studi e più la definizione della parola libertà si allontana da te. Perché, come ha spiegato Isaiah Berlin negli anni 60, quando qualcuno pensa di avere la definizione di questo termine libertà nascono i regimi più autoritari. Mi spiego meglio, quando un despota o un leader politico crede di sapere cosa sia la libertà per il proprio popolo fa di tutto per raggiungere questo scopo, e spesso elimina una grande parte di libertà individuale. Quindi, la trappola, il meccanismo distorto del periodo della guerra fredda è stato proprio questo. In un blocco si tendeva verso la libertà individuale esasperata, nell’altro blocco, invece, con la scusa della libertà collettiva si andava verso un regime autoritario.
Ovviamente sono andati avanti rispetto alla guerra fredda e una parola, che risuona nei pensieri dei vari filosofi, è la parola alterità; cioè quando si riesce ad inglobare l’esperienza dell’altro e a farla propria, questo diventa il più grande momento di libertà. Questa parola, alterità, poi, ha molto a che vedere con un altro lavoro che sto portando avanti da molti anni, un’altra ricerca, che è quella sulle migrazioni, come dicevi te. Effettivamente anche qui, quando noi riusciremo ad inglobare l’esperienza di persone che vengono da altre parti del mondo, da altre culture, all’interno della nostra esperienza, quello sarà un accrescimento incredibile per la nostra società. Piano piano sta avvenendo, però c’è bisogno almeno di un’altra generazione, penso. Come ti dicevo, più studiavo questo tema per la sua definizione e più si allontanava, ma in una poesia di Kahlil Gibran, On Freedom, tratta dal libro Il profeta, ho trovato forse le parole più chiare, più belle mai lette sulla libertà. In sintesi il poeta dice che prima di richiedere la libertà all’esterno, da un despota, da un regime autoritario, prima di richiedere quella che si chiama Libertà negativa, cioè la libertà individuale, dovremmo ricercare la libertà all’interno di noi stessi. Perché in realtà, dice Gibran, il despota ce l’abbiamo messo noi sul trono. Effettivamente siamo ancora incastrati in questo meccanismo, siamo molto bravi a manifestare per chiedere la libertà da qualcuno ma siamo molto, molto, più pigri nel cercare libertà all’interno di noi stessi, perché richiede uno sforzo immenso e, anche qua, penso che abbiamo bisogno di un bello scatto di maturità.

Nella sua ultima personale sembra ci sia stato quasi uno spostamento di prospettiva, in questa mostra ha messo al centro temi importanti ed attuali, cosa l’ha influenzata maggiormente, cosa l’ha spinta a verso questa direzione?
Sì, effettivamente hai detto bene, per affrontare il tema delle migrazioni, che è un tema velatamente legato al colonialismo – in quanto i disegni che facevo erano ripresi da geografi francesi, tedeschi, italiani e inglesi che andavano nelle missioni coloniali – ho sempre usato il filtro della storia, perché non essendo un fotoreporter di guerra mi aiutava a vedere le cose con minimo di distacco. Temi come quello delle migrazioni, di cui parliamo molto in questi anni, da quando l’uomo ho messo piede su questo pianeta sono sempre attuali e quindi nella storia, come il tema della libertà, si ripetono. Detto ciò, nella mostra Tidal Wave, che ho fatto subito prima del lockdown alla galleria Lorcan O’Neill, è come se fossi sceso per strada e avessi iniziato a rapportarmi con tutte queste persone, ad ascoltare le loro storie e a cercare di capirle in modo più diretto.
Ci sentiamo tutti minuscoli davanti a temi così importanti come la libertà e le migrazioni, nel senso che sentiamo che nessuno di noi può fare niente, perché sono tematiche troppo grandi, ma questo è un atteggiamento sbagliato. In realtà, basterebbe dedicare anche solo un minuto del proprio tempo ad ascoltare una storia, questo sarebbe già un movimento verso la comprensione e l’interiorizzazione di questi temi, e quindi è quello che ho fatto. Sono sceso per strada, per le strade del Brasile, dove sono stato a vedere le discariche in cui una moltitudine di persone, una sorta di società, cresce e lavora. Sono stato a vedere i migranti che sbarcano in Sicilia, i sindaci che non hanno abbastanza poteri per gestire questo flusso migratorio e quindi si rivolgono all’autorità europea. Poi, nell’ultima parete, ci sono dei ragazzi tra i 15-18 anni, una nuovissima generazione che manifesta per delle politiche ambientali diverse. Sono nati come disegni su carta realizzati a penna e poi li ho dipinti su ceramica, con una tecnica che si chiama terzo fuoco.
Io ho sempre amato gli street artists, ma non sono mai riuscito a fare un pezzo, come viene definito, su un muro. Lavorando sulle carte e lavorando con delle tecniche che richiedono una quantità di tempo per fissare, andrei un po’ in contrasto con lo spirito della street art, però, l’andamento longitudinale di questo lavoro, di questo grande azulejos di 30m, in qualche modo, mi dava proprio l’idea di un pezzo, di un lavoro su un muro. Penso a vari esempi che abbiamo a Roma, uno di quelli che più mi ha marcato è sicuramente quello di Kentridge, Triumphs and Laments, sul Tevere, anche se non so se si possa definire propriamente street art. Un’opera di un’eleganza e una tecnica meravigliosa.

Nelle sue opere si ritrova spesso una dicotomia tra astrologia e scienza cartografica, quasi a voler sottolineare le due nature dell’uomo. Le mappe terrestri, però, non sono mai strumenti oggettivi, ma espressione di una visione personale del mondo. Se dovesse disegnare lei una mappa terrestre come la rappresenterebbe?
Come dicevi tu, non esiste nessun tipo di mappatura che sia strumento oggettivo, l’unica carta geografica terrestre veritiera sarebbe un foglio di carta grande quanto tutto il mondo, e quindi impossibile. I cartografi partono sempre da sé stessi, sin dalle prime carte che conosciamo, quelle dei Babilonesi, al centro viene rappresentato ciò che si conosce e poi va piano piano verso l’ignoto. E quindi, visto che mi piace sempre fare le cose al contrario di come vengono solitamente fatte, forse se dovessi pensare una mia carta geografica dovrei fare proprio il contrario e mettere al centro quello che non conosco, l’ignoto, e pian piano nei bordi periferici, dove di solito c’erano le terre che non si conoscevano, metterei le mie sicurezze. Perché in realtà penso che il lavoro dell’artista, che è il lavoro che faccio, sia proprio questo: cercare di affrontare quotidianamente l’ignoto. Cercare di affrontare quello che non si sa e quello che non si sa fare, altrimenti si rischia di diventare un artigiano e quindi penso che il lavoro dell’artista sia un lavoro che ti porta veramente a sperimentare tecniche, ma soprattutto temi, che non conosci verso i quali però provi un’attrazione. Questo può creare una forte angoscia di non riuscire a fare quello che vorresti, ma questo sentimento, per quello che voglio dire, in realtà non ha un’accezione negativa ma positiva. È proprio questo che metterei l’ignoto al centro della mia carta geografica, e poi pian piano presso i lati periferici le terre più conosciute.
Quali saranno i suoi prossimi progetti?
Ci sono una serie di mostre collettive che sono in atto o che stanno per inaugurare nei prossimi mesi. All’estero ad agosto ha inaugurato una bella mostra itinerante, organizzata dal Ministero degli Affari Esteri, per tutta la via della seta, quindi dalla Cina al Kazakhstan fino ad arrivare in Turchia. Poi, sempre all’estero, c’è una bella mostra collettiva in Giappone per le Olimpiadi e un’altra a San Paolo in Brasile, al Museo di Arte Contemporanea. Farò poi una mostra personale a metà ottobre, alla Biblioteca Apostolica Vaticana, dove cercherò di mettere il rapporto alcune carte geografiche del loro patrimonio con la mia visione sui temi della contemporaneità, che poi sono temi che anche il Vaticano in questi ultimi anni ritiene molto centrali, questa è una cosa molto bella perché mostre al Vaticano di artisti contemporanei non se ne vedono da tanto tempo, sembra quasi una commissione rinascimentale.