
San Lorenzo: storie di chi resta e di chi arriva
Il distretto dell’arte di Roma è stato lo scenario di tantissime storie e ancora oggi è quantomai vivo.
San Lorenzo, fin dalla sua nascita, si rivela un quartiere in grado di evolversi e cambiare più volte faccia rimanendo, nel tempo, sempre fedele a sé stesso. La vicinanza con La Sapienza Università di Roma si è rivelata un fattore fondamentale in tal senso: dagli anni Sessanta in poi, grazie al boom economico, gli iscritti, moltiplicatisi, hanno animato e trasformato la zona; la questione diventa così eclatante che nel giugno 1974 l’Unità, giornale stabilitosi fin dal 1956 con la propria sede nel quartiere sanlorenzino, più precisamente in via dei Taurini 19, pubblica un articolo dal titolo esemplificativo: “Artigiani e operai espulsi dalle case di San Lorenzo”. Lo scritto ha l’intento di denunciare le società immobiliari che, con l’affluenza dei nuovi potenziali affittuari, hanno acquistato gli edifici e hanno messo sul mercato gli alloggi ad un prezzo maggiorato, senza fornire nuovi servizi al territorio; causando, anzi, in alcuni casi, la chiusura di attività e l’esodo degli artigiani che fino ad allora avevano animato il quartiere.
I nuovi arrivati non si limitavano soltanto a stabilirsi fisicamente in questo luogo: vi facevano vivere anche le proprie idee, che dalle aule universitarie si riversavano per le strade. Sono anni difficili, neanche il nuovo decennio d’altronde sembrava aver abbandonato il clima caldo delle contestazioni e delle manifestazioni dei decenni precedenti. La violenza colpiva di nuovo il quartiere (anche se in modo indiretto), prima, il 12 febbraio 1980 con l’uccisone di Vittorio Bachelet, all’epoca vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura, assassinato dopo aver tenuto una lezione alla facoltà di Scienze Politiche e poi, di nuovo, il 27 maggio 1985 con l’omicidio rivendicato dalle Brigate Rosse, nel parcheggio dell’ateneo, dell’economista e professore universitario Ezio Tarantelli.
Ma questi sono anche ricordati come gli anni dove molti tra intellettuali e scrittori hanno trovato accoglienza e confronto nel quartiere: non era difficile imbattersi in delle discussioni tra personalità come Alberto Moravia, Elsa Morante e Pier Paolo Pasolini, specialmente in Piazza dei Sanniti, nell’antica trattoria da Pommidoro. È proprio qui che Pasolini ha cenato con Ninetto Davoli la sera in cui è stato ucciso. San Lorenzo sembrava un luogo perfetto per cercare ispirazione e pace tanto che il poeta Renzo Paris, dopo essere rimasto completamente affascinato dall’atmosfera che si respirava, nel 1979 dichiara di aver contratto la “malattia della sanlorenzite”. Del resto, nonostante quanto riportavano i giornali, nel pieno degli anni Ottanta vi erano ancora strade che raccontavano un’altra realtà e un altro tempo dove la creatività e l’artigianato trovavano uno spazio favorevole per fiorire e continuare ad esprimersi.

Via dei Piceni sembrava in questo senso emblematica, con le tante botteghe artigiane che la animavano: la falegnameria Peretti, la coloreria del commendator Cellini, la bottega “de Pippo er fabbro”, la vetreria e la bottega dello scultore Livio Scatolini. Quest’ultimo, nato a San Lorenzo da una famiglia di artigiani (il padre aveva una falegnameria), dopo aver iniziato da giovanissimo, a soli undici anni, l’apprendistato nella bottega del maestro marmista Lucio Rossi, decide, nel 1952, di aprire una bottega ex novo proprio lì, in Via dei Piceni, dove aveva appreso i segreti del mestiere. Durante più di cinquant’anni di attività molte sono state le personalità passate da questo luogo. Come in ogni officina artigiana non era difficile trovare, a fianco della signora sanlorenzina, delle personalità più note come il critico d’arte Achille Bonito Oliva o gli artisti Francesco Clemente, Enzo Cucchi e Mario Schifano. Come racconta il figlio, Otello Scatolini, anche lui maestro del marmo a San Lorenzo, in quegli anni suo padre è stato depositario e trasmettitore di molte conoscenze e segreti, ancora oggi punti cardine della lavorazione del marmo per la scultura classica fatta a mano. È una tradizione, quella di tramandare i segreti del mestiere, che affonda le sue radici nell’antichità, passando da Michelangelo Buonarroti e Gian Lorenzo Bernini, arrivando fino ai tempi nostri.
Se da una parte vi erano le attività artigiane che si dividevano tra chiusure e resistenze, dall’altra vi erano nuove personalità che trovavano in San Lorenzo un posto favorevole dove porre nuove radici. È il caso dell’artista Fiorenzo Zaffina. Di origine calabrese, si era trasferito a Roma per intraprendere gli studi all’Accademia di Belle Arti e per frequentare la facoltà di architettura. Nonostante le lezioni si svolgessero in una zona distante dal quartiere, a Valle Giulia, era a San Lorenzo che Zaffina si incontrava con altri colleghi per godere al massimo la vita universitaria: tra collettivi, manifestazioni e le case degli studenti. Il suo rapporto con questo luogo, con il tempo, si è andato ancor più intensificando: in un primo momento, quando ha iniziato a lavorare come grafico a l’Unità e poi, in maniera ancora più viscerale, quando nel 1986 ha deciso di prendere uno studio, in via dei Campani, dove si trova ancora oggi, per portare avanti la propria ricerca artistica. Tra i suoi lavori, sicuramente i più emblematici sono le rotture che riguardano i muri. Come l’artista ha affermato, vi è una voglia di vedere al loro interno. In questo senso i muri, dovunque si trovino, possono essere paragonati a degli hard disk che prendono e conservano: custodiscono la storia al loro interno e per scoprirla non resta far altro che lavorarli, scavarli, romperli o aprirli letteralmente fino all’anima per farli parlare. Come ha affermato: “Dopo qualche tempo sono io a essere entrato dentro San Lorenzo, ma nel vero senso della parola”.
A questo punto viene istintivo pensare, come avviene per le opere di Zaffina, che anche le Mura che da sempre circondano il quartiere, delimitandolo e rendendolo ben riconoscibile, non sono mai state causa di chiusura per via delle fratture che in qualche modo lo caratterizzano. È grazie a quest’ultime che San Lorenzo è riuscito a non chiudersi su sé stesso, ma ad aprirsi a nuove realtà e nuove vitalità portate non solo dai giovani che animano l’università ma anche al gran numero di ateliers e di artisti che hanno abitato e continuano ad abitare il territorio, rendendolo vivo.

Il Pastificio Cerere. La fabbrica che si fece ateliers
Nell’opinione pubblica, quando si parla del binomio arte/quartiere di San Lorenzo viene subito alla mente il Pastificio Cerere. L’edificio, in via degli Ausoni, tra via Tiburtina e Piazza dei Sanniti, fin dalla sua nascita è strettamente legato al contesto del luogo.
Nato da alcune modifiche apportate dall’ingegner Pietro Satti a due corpi di fabbrica già esistenti, la struttura apre le porte per la prima volta nel 1905 come Molino e Pastificio intitolato a Cerere, dea delle messi. La storia industriale dello stabile prosegue fino al 1960 quando, con la chiusura definitiva, si dà il via alla sua riconversione che si inserisce nel processo genetico del quartiere.
Dopo la sua dismissione, Felicina Ceci figlia del proprietario dell’ex fabbrica Pietro Ceci, insieme alla sorella Adriana, incomincia ad affittare alcuni dei locali come magazzini di calzature, vestiario e medicinali. È solo nel 1973 però, che il più importante reperto di archeologia industriale di San Lorenzo inizia la sua vera riconversione: da fabbrica a laboratorio artistico. In quell’anno infatti il Pastificio inizia ad accogliere artisti emergenti: Nunzio Di Stefano, appena diciannovenne, è il primo a stabilirvisi con il proprio studio. La signora Ceci, già amica del futurista Giacomo Balla, è lieta di accogliere un artista nei suoi ambienti e incoraggia anche altri arrivi di questo tipo. Nunzio occupando inizialmente l’edificio con dei compagni sceglie come suo studio una stanza nell’ala sinistra all’ultimo piano.
La scelta del posizionamento d’altronde è imposta dal fatto che quella all’epoca è l’unica porzione dell’edificio ad avere il pavimento. Al suo interno permangono le vesti industriali e la sua storia risuona ancora nell’ampia chiostrina, nei macchinari metallici, nei montacarichi utilizzati per spostarsi tra i vari piani, tra le passerelle e nei ballatoi. A distanza di pochi anni però per motivi vari l’artista si ritrova da solo; inizia così a cercare delle nuove personalità con cui condividere lo spazio. È allora che all’accademia di Belle Arti, dove frequenta il corso di scenografia di Toti Scialoja, raccontando di questo luogo con ampi spazi luminosi, conosce Dessì che lo mette in contatto con un suo amico in cerca di un luogo dove stabilirsi: Giuseppe Gallo.

È così che nel 1977 quest’ultimo prende sede nell’Ex Pastificio e inizia a condividere lo studio con Nunzio. Grazie a questa nuova presenza anche Gianni Dessì comincia a frequentare l’edificio e nell’arco di poco tempo vi si trasferisce bonificando una porzione del quarto piano. Dopo poco anche il terzo piano viene ristrutturato grazie all’arrivo di Bruno Ceccobelli e Marco Tirelli. Nel 1981 anche Pizzi Cannella inizia a frequentare il Pastificio Cerere perlopiù come ospite di Nunzio e, affascinato da questo luogo, decide di insediarvisi anche lui. Quest’ultimo d’altronde sostiene che trovandosi tra l’università, la stazione, l’ospedale e il cimitero, ossia quei luoghi rappresentanti i momenti cruciali della vita, essere nel quartiere di San Lorenzo e più nello specifico al Pastificio è come trovarsi al centro del mondo.
Pur condividendo gli stessi spazi, gli artisti comunque non sono uniti da alcun manifesto; il loro è un sodalizio tra personalità che conoscono la propria vocazione e cercano degli interlocutori coinvolti nella stessa pratica del fare, con i quali poter aprire un confronto ma non un lavoro comune. Per questo è da ritenere assai controversa la definizione che negli anni li ha etichettati come gli artisti della “Scuola di San Lorenzo”. Se da una parte non si trova immediato riscontro nell’identità eterogenea del gruppo, dall’altra l’appartenenza al luogo è innegabile. La scelta dell’edificio come luogo di residenza e lavoro infatti avviene in modo del tutto spontaneo; è il risultato di convergenze, amicizie, sodalizi e matrici comuni vissute negli anni precedenti come il corso all’accademia di Toti Scialoja, l’esperienza de La Stanza e la “condivisione” di alcuni galleristi come Gian Enzo Sperone, Ugo Ferranti e Fabio Sargentini.
È con la mostra Ateliers del 1984, promossa dal sindaco Giulio Carlo Argan e dall’assessore alla cultura Renato Nicolini, e curata da un allora giovane Achille Bonito Oliva, che le porte del Pastificio vengono spalancate e gli spazi creativi aperti al grande pubblico, che viene a conoscere e toccare con mano l’esperienza che sta prendendo piede nel quartiere. L’esposizione, ricordata come un evento straordinario, si svolge al di fuori da ogni schema predefinito: non sono le opere ad uscire per approdare sui muri di una galleria ma è la gente che va a “trovarle” negli studi.
In questa occasione, inoltre, per assecondare una consuetudine del curatore, che più di una volta aveva scelto l’immagine di un’opera del passato per identificare le sue mostre di arte contemporanea, il 15 dicembre 1983 viene scattata una foto di gruppo. Quest’ultima si ispira al dipinto di Courbet rifiutato al Salon del 1855, che lo stesso autore aveva intitolato Atelier du peintre, allégorie réelle déterminant une phase de sept années de ma vie artistique. Come avviene nel dipinto così anche nello scatto di quell’anno tra i sessantatré personaggi immortalati vi sono artisti, critici, storici dell’arte, scrittori, editori, filosofi, amici e persino due cani, quasi a voler sottolineare l’affermazione di un soggetto collettivo.
La fabbrica di San Lorenzo dagli anni Settanta in poi, come è stato già detto, si è trasformata dunque in un centro propulsore di arte contemporanea. Nel corso del tempo, oltre agli artisti storici molti pittori, scultori, critici, galleristi, intellettuali ed esponenti del mondo dello spettacolo hanno trovato casa tra queste mura e hanno fatto sì che quel processo di condivisione iniziato negli anni Settanta, per caso, continuasse fino ai giorni nostri. Si ricorda per esempio la nascita nel 1986 del “Centro di Cultura Ausoni” gestito dal critico Italo Mussa e Arnaldo Romani Brizzi, entrambi sostenitori della pittura colta, una pittura figurativa che implica il ritorno ad iconografie e tecniche esecutive tradizionali; l’instaurazione nel 1993 dello spazio espositivo “Studio Aperto” a cura di Luigi Campanelli e nel 1995 della galleria di Pino Casagrande. È solo del 2002 invece l’idea di dotare l’edificio di una Fondazione, poi nata nel 2005 per volere del suo presidente Flavio Misciattelli e che vede oggi Marcello Smarrelli come direttore artistico e Claudia Cavalieri come coordinatrice delle mostre.