
La fotografia a San Lorenzo: gli archivi del passato, le ricerche del presente e lo sguardo al futuro
Che rapporto c’è tra San Lorenzo e la fotografia? Scopriamolo in questo breve excursus tra passato, presente e futuro.
La fotografia permette di rendere un frammento di vita fruibile agli occhi per un tempo nettamente superiore rispetto al momento che rappresenta. Una caratteristica fondamentale è la capacità di raccontare una storia, un evento, un tema, sia attraverso una fotografia, sia attraverso una serie che completa il ciclo visivo di una vicenda dall’inizio alla fine. Questa narrazione può guardarci dentro, concentrarsi sulle emozioni, su di un viaggio nello spirito o documentare la realtà esterna, entrando in una memoria collettiva. Il quartiere di San Lorenzo pullula di esempi di queste due idee di fotografia grazie a personaggi che hanno segnato la storia, fotografi attivi nel territorio ma anche in luoghi significativi come l’Istituto fotografico, studi e gallerie.
La ricerca fotografica può quindi essere diretta verso uno sguardo interiore, in un’analisi della percezione, della memoria umana, del concetto del tempo e dello spazio trasfigurati in immagine. Ad esempio la galleria Gilda Lavia, che nasce nel 2018, promuove artisti il cui obiettivo è la riflessione sulla nostra società e che si esprimono non di rado con il medium della fotografia. Una delle artiste che rappresenta, Petra Feriancová, in una sua mostra del 2020 ha presentato una serie di scatti analogici intitolata Antigone’s eyes,dove lo sguardo della giovane della tragedia di Sofocle fornisce lo spunto per un’indagine sulla misurazione del tempo, in cui la non linearità della memoria viene così vissuta come una trappola. Nella mostra Rokovoko alla galleria Matèria, l’artista Giulia Marchi evidenzia invece l’incompletezza di tale percorso attraverso aree lasciate vuote per essere colmate dalla memoria. Sulla scia di una formazione in lettere classiche affronta di frequente il rapporto tra l’immagine e la parola scritta, come in questo caso dove protagonista è un’isola immaginaria del romanzo Moby Dick, un luogo dall’ubicazione e contorni incerti; la mostra è del 2015, l’anno di inaugurazione della galleria, che promuove quattro mostre l’anno, spesso site specific e con grande attenzione al medium fotografico.
Tra i fotografi che operano a San Lorenzo Eva Tomei lavora avendo come spunto di creazione la letteratura, per riflettere su tematiche come il tempo e la comunità. Sulle ginocchia degli dèi è un progetto che ripercorre luoghi legati al mar Mediterraneo attraverso il viaggio dell’eroe greco Ulisse: dimostra la passione dell’artista per le origini del mito e della cultura, toccando anche il delicato tema della migrazione e di un arricchimento interiore frutto del confronto con realtà diverse dalla propria. Al contrario di tale itinerario così complesso, Gianmaria de Luca compone il progetto The light that becomes shadow all’interno di una camera oscura costruita per l’occasione nella sua abitazione a causa della reclusione forzata durante il lockdown. La modella è una, la sua compagna, e gli oggetti sono altrettanto poco numerosi e ben riconoscibili nelle varie composizioni sognanti, come un telo che a volte cela in maniera fittizia il corpo della donna o un martello utilizzato per comporre il simbolo del comunismo. La donna appare a tratti paragonabile alla bellezza greca con rimandi al bagno rituale della dea Afrodite, per poi trasformarsi in personificazione dell’angoscia, paura e sofferenza provata in quel periodo di forte incertezza sul futuro.
Tra le vie di San Lorenzo inoltre è custodito uno scrigno prezioso per la conservazione della memoria dell’arte nazionale e internazionale dagli anni Sessanta fino ad oggi. L’archivio Claudio Abate racchiude tutto il repertorio del fotografo che sin da giovanissimo ha intessuto rapporti con artisti come Mario Schifano, lavorando poi con molti altri tra cui Gino De Dominicis, Jannis Kounellis, Joseph Beuys, Pino Pascali giungendo tra gli ultimi lavori a Yoko Ono. Grazie al suo sguardo è possibile oggi immaginare la potenza espressiva di installazioni e performance che hanno avuto luogo in spazi espositivi e gallerie più in voga del tempo come L’Attico o La Salita. Le sue fotografie non solo documentano la storia dell’arte della seconda metà del secolo scorso ma diventano esse stesse opere d’arte. Fotografando una mostra o un’opera si cerca di restituire quanto più la verità del momento, di non caricarla di sovra letture, evidenziarne piuttosto delle caratteristiche che solo uno sguardo attento coglierebbe. “Niente è per sempre, nessuno è necessario, ma senza di me la vita mi sembra così vuota” è l’epitaffio di Marco Lodoli ad una mostra del 2006 documentata da Alessandro Vasari, che immortala le scritte sul muro bianco per lasciarne memoria dopo la fine dell’evento. Il suo studio e l’archivio Vasari si trovano a San Lorenzo e la sua ricerca spazia tra fotografia di arte moderna, mostre contemporanee e architettura.

Oltre all’arte, un fotografo può decidere di concentrarsi anche su numerosi altri aspetti della vita, di analizzare con occhio critico particolari della nostra esistenza. Un reportage fotografico è ad esempio Un mondo a pedali di Alberto Guerri: il tema sono le biciclette, le varie tipologie, le motivazioni che spingono le persone a preferirle, ma anche quando non si tratta di scelta ma di necessità, è semplicemente la realtà a raccontarsi da sola. Alla musica dedica un progetto (The sound of silence) Luigi Orrù, composto da fotografie durante, pre e post concerti o eventi musicali. Dettagli che rinviano nella nostra mente al suono, alle casse al massimo del volume, all’emozione del momento vengono colti ma resi muti dall’assenza dell’audio in fotografia. Lo studio di Orrù si trova a Via dei Volsci, punto di riferimento perché nello stesso luogo vi è anche quello di Giulio Speranza e lo storico Laboratorio Fotografico Corsetti, che oltre a offrire servizi di stampa è anche centro promotore di mostre, presentazioni di libri e corsi di fotografia, camera oscura e banco ottico. Non è l’unico luogo dove poter studiare fotografia e confrontarsi con maestri di grande calibro ed esperienza, in via degli Ausoni c’è infatti l’Istituto Superiore di Fotografia e Comunicazione Integrata con approfondimenti sulla moda e il fotogiornalismo, tra i cui docenti figura Ottavio Celestino con una grande esperienza in editoria e pubblicità.
Il quartiere rappresenta infine un punto fermo della fotografia del passato con una produzione interessantissima, custodendo la memoria storica di eventi, mostre, opere del secolo scorso e attivandosi per promuoverne la conoscenza, esempio principale ne è l’Archivio storico della Memoria di Rolando Galluzzi. Le ricerche attuali raccontano poi un presente carico a volte di incertezza, di ricerca delle proprie radici culturali, del proprio io e del rapporto con l’ambiente di cui si fanno portavoce i vari protagonisti presenti nel territorio. Al futuro è dove sono diretti gli insegnamenti di laboratori fotografici, dell’Istituto e lo sguardo delle nuove figure che operano in un luogo con una forte tradizione alle spalle come San Lorenzo.

San Lorenzo: storie di chi resta e di chi arriva
Il distretto dell’arte di Roma è stato lo scenario di tantissime storie e ancora oggi è quantomai vivo.
San Lorenzo, fin dalla sua nascita, si rivela un quartiere in grado di evolversi e cambiare più volte faccia rimanendo, nel tempo, sempre fedele a sé stesso. La vicinanza con La Sapienza Università di Roma si è rivelata un fattore fondamentale in tal senso: dagli anni Sessanta in poi, grazie al boom economico, gli iscritti, moltiplicatisi, hanno animato e trasformato la zona; la questione diventa così eclatante che nel giugno 1974 l’Unità, giornale stabilitosi fin dal 1956 con la propria sede nel quartiere sanlorenzino, più precisamente in via dei Taurini 19, pubblica un articolo dal titolo esemplificativo: “Artigiani e operai espulsi dalle case di San Lorenzo”. Lo scritto ha l’intento di denunciare le società immobiliari che, con l’affluenza dei nuovi potenziali affittuari, hanno acquistato gli edifici e hanno messo sul mercato gli alloggi ad un prezzo maggiorato, senza fornire nuovi servizi al territorio; causando, anzi, in alcuni casi, la chiusura di attività e l’esodo degli artigiani che fino ad allora avevano animato il quartiere.
I nuovi arrivati non si limitavano soltanto a stabilirsi fisicamente in questo luogo: vi facevano vivere anche le proprie idee, che dalle aule universitarie si riversavano per le strade. Sono anni difficili, neanche il nuovo decennio d’altronde sembrava aver abbandonato il clima caldo delle contestazioni e delle manifestazioni dei decenni precedenti. La violenza colpiva di nuovo il quartiere (anche se in modo indiretto), prima, il 12 febbraio 1980 con l’uccisone di Vittorio Bachelet, all’epoca vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura, assassinato dopo aver tenuto una lezione alla facoltà di Scienze Politiche e poi, di nuovo, il 27 maggio 1985 con l’omicidio rivendicato dalle Brigate Rosse, nel parcheggio dell’ateneo, dell’economista e professore universitario Ezio Tarantelli.
Ma questi sono anche ricordati come gli anni dove molti tra intellettuali e scrittori hanno trovato accoglienza e confronto nel quartiere: non era difficile imbattersi in delle discussioni tra personalità come Alberto Moravia, Elsa Morante e Pier Paolo Pasolini, specialmente in Piazza dei Sanniti, nell’antica trattoria da Pommidoro. È proprio qui che Pasolini ha cenato con Ninetto Davoli la sera in cui è stato ucciso. San Lorenzo sembrava un luogo perfetto per cercare ispirazione e pace tanto che il poeta Renzo Paris, dopo essere rimasto completamente affascinato dall’atmosfera che si respirava, nel 1979 dichiara di aver contratto la “malattia della sanlorenzite”. Del resto, nonostante quanto riportavano i giornali, nel pieno degli anni Ottanta vi erano ancora strade che raccontavano un’altra realtà e un altro tempo dove la creatività e l’artigianato trovavano uno spazio favorevole per fiorire e continuare ad esprimersi.

Via dei Piceni sembrava in questo senso emblematica, con le tante botteghe artigiane che la animavano: la falegnameria Peretti, la coloreria del commendator Cellini, la bottega “de Pippo er fabbro”, la vetreria e la bottega dello scultore Livio Scatolini. Quest’ultimo, nato a San Lorenzo da una famiglia di artigiani (il padre aveva una falegnameria), dopo aver iniziato da giovanissimo, a soli undici anni, l’apprendistato nella bottega del maestro marmista Lucio Rossi, decide, nel 1952, di aprire una bottega ex novo proprio lì, in Via dei Piceni, dove aveva appreso i segreti del mestiere. Durante più di cinquant’anni di attività molte sono state le personalità passate da questo luogo. Come in ogni officina artigiana non era difficile trovare, a fianco della signora sanlorenzina, delle personalità più note come il critico d’arte Achille Bonito Oliva o gli artisti Francesco Clemente, Enzo Cucchi e Mario Schifano. Come racconta il figlio, Otello Scatolini, anche lui maestro del marmo a San Lorenzo, in quegli anni suo padre è stato depositario e trasmettitore di molte conoscenze e segreti, ancora oggi punti cardine della lavorazione del marmo per la scultura classica fatta a mano. È una tradizione, quella di tramandare i segreti del mestiere, che affonda le sue radici nell’antichità, passando da Michelangelo Buonarroti e Gian Lorenzo Bernini, arrivando fino ai tempi nostri.
Se da una parte vi erano le attività artigiane che si dividevano tra chiusure e resistenze, dall’altra vi erano nuove personalità che trovavano in San Lorenzo un posto favorevole dove porre nuove radici. È il caso dell’artista Fiorenzo Zaffina. Di origine calabrese, si era trasferito a Roma per intraprendere gli studi all’Accademia di Belle Arti e per frequentare la facoltà di architettura. Nonostante le lezioni si svolgessero in una zona distante dal quartiere, a Valle Giulia, era a San Lorenzo che Zaffina si incontrava con altri colleghi per godere al massimo la vita universitaria: tra collettivi, manifestazioni e le case degli studenti. Il suo rapporto con questo luogo, con il tempo, si è andato ancor più intensificando: in un primo momento, quando ha iniziato a lavorare come grafico a l’Unità e poi, in maniera ancora più viscerale, quando nel 1986 ha deciso di prendere uno studio, in via dei Campani, dove si trova ancora oggi, per portare avanti la propria ricerca artistica. Tra i suoi lavori, sicuramente i più emblematici sono le rotture che riguardano i muri. Come l’artista ha affermato, vi è una voglia di vedere al loro interno. In questo senso i muri, dovunque si trovino, possono essere paragonati a degli hard disk che prendono e conservano: custodiscono la storia al loro interno e per scoprirla non resta far altro che lavorarli, scavarli, romperli o aprirli letteralmente fino all’anima per farli parlare. Come ha affermato: “Dopo qualche tempo sono io a essere entrato dentro San Lorenzo, ma nel vero senso della parola”.
A questo punto viene istintivo pensare, come avviene per le opere di Zaffina, che anche le Mura che da sempre circondano il quartiere, delimitandolo e rendendolo ben riconoscibile, non sono mai state causa di chiusura per via delle fratture che in qualche modo lo caratterizzano. È grazie a quest’ultime che San Lorenzo è riuscito a non chiudersi su sé stesso, ma ad aprirsi a nuove realtà e nuove vitalità portate non solo dai giovani che animano l’università ma anche al gran numero di ateliers e di artisti che hanno abitato e continuano ad abitare il territorio, rendendolo vivo.

Dalla Scuola di San Lorenzo al Distretto dell’arte. Intervista a Gianni Dessì
Tra i protagonisti della “Scuola di San Lorenzo“, raccolta attorno all’ex Pastificio Cerere, centro vitale della cultura artistica negli anni Ottanta, Gianni Dessì, ha visto la trasformazione del quartiere con il passare degli anni e nella nostra intervista ci racconta il suo punto di vista sul distretto dell’arte di Roma.
Trasferendo il suo studio presso il Pastificio Cerere ha dato vita, insieme a Nunzio, Ceccobelli, Bianchi, Pizzi Cannella e Tirelli, quella che viene ricordata come “Scuola di San Lorenzo”, che rese l’ex fabbrica il centro propulsore di arte contemporanea che è ancora oggi. Quanti anni è rimasto al Pastificio e come ha visto cambiare il quartiere?
Sono stato a San Lorenzo dagli anni Ottanta fino al 2000, ma il tempo a Roma ha un altro passo. Noi vivevamo là dentro come in una bolla. Eravamo un po’ fuori posto, ma gli abitanti ci hanno accolto bene e con curiosità. C’era molto da sistemare, il posto era fantastico per lavorare: c’erano begli spazi, c’era una bella luce, c’era tutto. Non si può dire che ci sia stato un rapporto con l’esterno del quartiere se non per le esigenze primarie… Il ristorante, la lavanderia e il mercato e qualche artigiano. Il vero contributo del quartiere è stato permetterci di fare quello che volevamo… In quella situazione eravamo come i vermi nel formaggio. Era una situazione in cui ci siamo letteralmente “scavati” il posto. Quando siamo arrivati, il luogo non era solo disabitato… Era abbandonato da quarant’anni. C’erano esempi di macchinari stupendi, di manifattura dei primi anni del Novecento, macchine completamente in legno, di douglas bellissime per lavorare la pasta. Erano ambienti affascinantissimi, ricordo che sia Cecco (Ceccobelli) che Francesca Woodman li usarono per una serie di foto di loro ‘azioni’.
Nonostante l’eterogeneità che ha caratterizzato il gruppo della “Scuola di San Lorenzo”, avete condiviso la scelta del luogo come residenza e lavoro. Com’erano i rapporti tra di voi?
Ci si conosceva tutti, con qualcuno oltre che l’Accademia avevo anche condiviso per anni uno studio a Trastevere. Feci un po’ fatica all’idea di spostarmi, perché Trastevere era un luogo in cui c’era molta circolarità, mentre per me San Lorenzo rappresentava un altrove un po’ indistinto: tutte le cose si svolgevano in centro. Roma era quella, San Lorenzo era un fuori che non si capiva bene, spesso percepito anche come poco sicuro… Ma ci conquistò subito… L’atmosfera popolare animata dalla vicina Università. Era tutta una situazione stimolante: la città ti provava, c’era ogni volta qualcosa a cui dovevi rispondere… Talvolta anche con una presa di posizione. C’era sempre una tensione con cui dovevi misurarti: quella politica, quella generata dal terrorismo, dalla droga, dall’attivismo e c’era ovviamente la tensione artistica. A tutto questo bisognava rispondere anche e soprattutto in modo creativo, vedi la scena del teatro ad esempio che in quei tempi ha incrociato tutto.

L’arte e le gallerie, che c’erano, erano poche ma con il senno di poi hanno sviluppato un lavoro impressionante! Era richiesto uno stare che non ti portava a poltrire ma a rispondere, e per farlo ti dovevi attrezzare lavorando sodo. Per quanto riguarda noi, la nostra amicizia, con alcuni ci siamo conosciuti in Accademia e con qualcuno addirittura prima, al liceo. Siamo un po’ cresciuti insieme. C’è stato, per quel che mi riguarda, prima uno studio a Trastevere, condiviso con Bianchi, Pace e Cecco mentre Giuseppe Gallo lo conoscemmo dopo, quando venne a vedere una mostra che aveva fatto Ceccobelli in centro, vicino Piazza del Popolo. Dopo qualche tempo Nunzio mi disse che cercava qualcuno per condividere lo studio che si trovava in un grande stabile, un’ex fabbrica… Lo dissi a Gallo e finii per farmi trascinare anch’io con loro, alla fine è successo quello che è successo. Sono andate avanti queste cose, dopo un poco arrivò Cecco, già facevamo mostre con la galleria di Ugo Ferranti a Roma e in altre gallerie sparse nel mondo… Dopo aver inizialmente lavorato con il teatro d’avanguardia. La scena era cittadina, nazionale e internazionale: le cose si mischiavano fortemente e c’era circolarità di idee e di presenze. Bisognava esserci e veniva richiesta presenza fisica, non era possibile partecipare virtualmente… Il ‘corpo era richiesto’. In qualche modo anche il linguaggio dell’arte passava proprio attraverso il corpo… Da una parte la body art, dall’altra, l’estrema rarefazione nel concettuale e d’inverso la volontà di materializzazione di una pittura che voleva ritrovare il proprio corpo e prepotentemente presentarlo in scena. Il mio problema si concentrava proprio sul ridare presenza, corpo e densità, per cui dovevo armarmi di cose e contenuti, bisognava provare ad avere reinventandola una struttura.
Nel 2019 il dipartimento di Storia Antropologia Religioni Arti e Spettacolo dell’università La Sapienza ha ideato il progetto “artista in residenza”. Questa iniziativa si è conclusa con l’installazione della sua opera Controluce nell’aula Chabod lo scorso 4 aprile. Le andrebbe di parlarci di questa iniziativa?
Mi hanno chiesto di essere l’artist in residence e mi sono domandato quale potesse essere il suo ruolo, dopo vari colloqui ci siamo detti che bisognava intenderla come una presenza che potesse in qualche modo tessere relazioni per contribuire a intrecciare e mettere insieme cose atte a fornire spunti creativi. Avevamo iniziato a elaborare una serie di progetti e programmi… Una costellazione di interventi che vedevano coinvolti artisti, musicisti e performer ma nel frattempo è arrivato il Covid ed ha stroncato tutto. Sono passati quasi tre anni e tutto quello che avevamo pensato ed elaborato è andato a finire nell’impossibilità di praticarlo. Il direttore del dipartimento, Gaetano Lettieri, allora mi ha suggerito che avrei potuto forse lasciare un segno… Donare un’opera a testimonianza di un passaggio… Mi ha fatto vedere varie possibilità, alla fine mi è parso interessante un luogo fortemente neutro, funzionale… un’aula grande, né bella né brutta, l’unica cosa che segnava quello spazio sono le sedie blu tutte rivolte verso la cattedra. Quando la vedi spoglia non puoi non immaginarla con gli individui che la animeranno prendendoci posto, siederanno e qualcun altro, di maggiore età, comincerà a sviluppare quel complesso processo che porterà alla loro formazione… Metaforicamente dovranno cominciare a prendere su di sé la responsabilità del ‘colore’, dello sviluppo possibile di una identità. In quei giorni mi era tornata indietro un’opera da una mostra a San Paolo del Brasile, composta da un ovale dipinto su tavola posto su una superficie di colore giallo dipinta direttamente sul muro. Sull’ovale poi, il cui dinamismo è amplificato dal non essere né appeso né dipinto, rispettando le ortogonali, è appena tracciata in nero la presenza di una figura (di fronte? di dietro?).
L’immagine trovava nella posizione frontale sulla parete la giusta collocazione perché ribadiva le due posizioni dei distinti e opposti punti di vista dell’assetto con cui era funzionalizzato lo spazio (cattedra/studenti). Ho mutato il colore passandolo dal giallo all’azzurro dei sedili usandolo per dipingere un lungo rettangolo orizzontale della stessa misura occupata dalle sedute e apponendoci al centro la tavola ovale. Se c’è sempre un problema di visione nell’approccio del pittore con l’immagine, c’è sempre in chi guarda la volontà di un rispecchiamento. Mi sembrava fosse possibile una tangenza con le mie Camere Pictae, in cui è il colore ad ‘abitare’ lo spazio e a riconfigurarlo mentre noi spettatori, esclusi fisicamente, ne partecipiamo solo con lo sguardo. In questo caso invece mi si proponeva la possibilità di concepirne una “praticabile”, con un “dentro”, in cui il colore non ridisegnava la percezione dello spazio, ma lo compiva solamente offrendo una ‘messa in forma’ a cercare un’estetica della funzione. Spero gli studenti si sentano di più a casa loro dopo l’installazione di quest’opera.
Tale progetto prevede altre operazioni?
No è compiuto… Spero che in ‘azione’ ci sia l’opera, la sua capacità di accogliere e dar forma… Deve essere l’opera a comunicare con gli studenti sperando aiuti a quello scambio che è alla base di ogni processo formativo. L’immagine nell’ovale è come accecata, non ha un’effigie, non si capisce se mostra un davanti o un dietro, nello stesso tempo però dalla prospettiva della cattedra ci sono un mucchio di persone che sono là con il proprio volto dando le spalle all’opera… Lecito pensare che in certe condizioni magari di controluce dei tratti possano vagare… Spero che possa entrare in funzione quella meccanica propedeutica, quel far sì che chi sta dentro stia meglio e che si confronti con un orizzonte, uno sguardo verso qualcos’altro che possa aprirsi su una prospettiva. Gli studenti hanno l’opera alle spalle, è il professore ad averla di fronte: tutti devono confrontarsi con il fatto che si è là per fare comunità. Le due ‘braccia’ che si allargano e che si affacciano sulle sedie comprendendole servono a immaginarci come comunità. Partono dalla parete per mettere in moto quella volontà di comunicare e di dire. Se il prodigio si compie è solo grazie al coinvolgimento delle persone che guardano altrimenti l’opera è muta, diventa un trofeo. Uno spazio è veramente pubblico se viene definito da una comunità che si incontra e si misura con un fatto, con una creazione, con qualcosa che dovrebbe ambire anche a raccontarla e che quindi trova una dimensione simbolica. È difficile vivere con dei quadri e non farsi cambiare la vita. L’artista non fa che testimoniare un’urgenza che però deve essere accolta… Forse abbiamo creato fin troppe strutture per far sì che questa urgenza venga catturata, presa, riparlata, ripensata. Ho l’impressione che la ‘cornice’ abbia mangiato il quadro. Un po’ bisogna tornare a mettere i puntini sulle “i” e vedere quali sono le cose che fondano e quali sono invece le cose che sono fuse. Dobbiamo rimettere a posto i termini.

Ad oggi San Lorenzo è un quartiere animato da numerose iniziative artistiche, come vede la situazione attuale?
Non sottovaluterei il fatto che questa è una dimostrazione di una certa vitalità, bisogna sfruttarla. Vedo tanto desiderio. Anche voi con questa voglia che esprimete nel crearvi occasioni, mettersi insieme e tessere una tela… Questa serve perché c’è qualcosa che si condivide. Qual è il sogno? Dov’è il riscatto? Questo deve diventare il centro, perché se è vacuo allora si perde e la comunità non cresce, non cresce l’esigenza e non diventa trasferibile l’esperienza. Poi ci vuole pure il tempo che ci vuole. Ogni volta che si fa una cosa, lo spazio deve essere quello dell’arte. Ogni volta bisogna inventarsi la cornice giusta in cui l’opera ha sopravvivenza. Se si fa insieme è meglio, ti diverti, hai dato senso al tuo vivere e al vivere della persona che ti sta vicino: è una microsocietà e ognuno deve poter metterci cose.
Al momento sta lavorando a qualche progetto?
Il progetto in collaborazione con la Sapienza mi ha coinvolto molto. È nato in maniera semplice, ma siamo riusciti a chiuderlo bene. Si sta pensando di fare una pubblicazione intorno a quella giornata che mi è stata dedicata con gli interventi di tanti amici e forse la trascrizione di quella ne diventerà il prologo, a cui seguirà una vera e propria antologia critica degli scritti più importanti che sono stati dedicati alla mia opera. Ho da qualche settimana concluso una mostra abbastanza grande in Toscana e a giugno parteciperò a un’altra a Torino. Dopo due anni di problemi siamo arrivati a mettere il punto e andare a capo.

I muri dipinti di San Lorenzo. Tra simboli della tradizione e temi sociali
San Lorenzo è uno dei quartieri di Roma con la maggior concentrazione di opere di Street art. I temi sono dei più vari e moltissimi sono gli artisti che hanno lasciato qui la propria firma.
Camminando per le vie del quartiere San Lorenzo non è difficile imbattersi in miriadi di opere che oggi vengono riunite sotto il nome di Street art. Sono disegni, scritte, dipinti realizzati su pareti di edifici, su facciate cieche di palazzi mai ricostruiti, sulle saracinesche dei negozi o sull’arredo urbano. Nell’arte di strada da sempre le opere sono realizzate su ogni tipo di supporto, ma quelli che a San Lorenzo colpiscono maggiormente sono i grandi murales, dipinti su tutta l’altezza degli edifici. Da Sten&Lex a Leonardo Crudi, solo per citarne due tra i più famosi, questi artisti scelgono il quartiere romano per realizzare le proprie opere. Molto spesso la commissione è da parte di enti pubblici, come nel caso di Tellas, che realizza il primo murale su un edificio appartenente all’Università La Sapienza, nello specifico sulle pareti della facoltà di Psicologia in via dei Marsi. Il progetto è frutto di un accordo tra il II Municipio e l’Ateneo, per celebrare i 50 anni dalla nascita dei corsi di laurea in Psicologia in Italia. “La percezione del paesaggio” si ispira alle forme geometriche e squadrate che compongono questo edificio, dalle linee nette e taglienti, e le ripropone in forma astratta, limitando le cromie al bianco e al nero.
Questa prima collaborazione tra Università e street artist è il segno evidente che l’arte urbana sia utilizzata come strumento sì per decorare, ma anche riqualificare determinati contesti. A Roma sono numerosi gli esempi dell’uso dell’arte pubblica come elemento risanatore o come spunto di riflessione per tematiche sensibili dal punto di vista sociale. Tra questi il murale “Usa la bici” in via dei Peligni di Simone Ferrarini, in collaborazione con il collettivo Fx, che invita ad un uso più consapevole dei mezzi non inquinanti come la bicicletta. La grande parete su cui è realizzato evidenzia come l’arte di strada erediti dal Graffiti-Writing degli anni ’70 la scelta degli spot più ambiti, difficili da raggiungere e che redano l’opera visibile a chiunque.
Non sempre però la realizzazione di un’opera nasce da nobili intenti; viene infatti mossa l’accusa alla Street art di edulcorare e nascondere problematiche di vario genere, come quelle legate alla gentrificazione ad esempio. Agli occhi dell’osservatore non c’è molta differenza tra un murale nato per volontà popolare o dell’artista e uno commissionato da costruttori o investitori; ciò che lo distingue è però la finalità: spesso alcuni pezzi sono autorizzati nella speranza di facilitare l’inserimento di un fabbricato in contesti tipici, fragili o comunque ben diversi dalla natura della nuova costruzione, oltre che di farne crescere il valore immobiliare.
Eccetto rari casi, a San Lorenzo l’arte urbana è in continuo dialogo con il territorio, da questo trae ispirazione, ne rispetta le tradizioni o le usanze e ne evidenzia le simbologie caratterizzanti. Esemplare in tal senso è l’opera “Patrimonio indigeno” in via dei Piceni, dell’artista Lucamaleonte, che ritrae i simboli principali del quartiere: la graticola, strumento del martirio del santo, un capitello che rimanda all’antica basilica di San Lorenzo fuori le mura, il corvo e i crisantemi che si riferiscono al cimitero del Verano. Spiccano poi sulla facciata che ospita l’opera la mano della dea Cerere che stringe delle spighe, offerte alla popolazione in quanto divinità della terra, della fertilità e dei raccolti e il picchio, animale simbolo dei Piceni. Il papavero ricorda i partigiani e i residenti della zona, che contrastarono il fascismo. Il serpente e un fascio di alloro si riferiscono alla vicina Università la Sapienza. Il murale quindi dialoga con il quartiere e sottolinea il senso di appartenenza attraverso i simboli.

L’opera di Lucamaleonte è stata realizzata su un edificio che mostrava le tracce della guerra; è facile trovare infatti tra i palazzi di San Lorenzo molte facciate cieche che, segno dei bombardamenti e di mai avvenute ricostruzioni, vengono rilette e trasformate in tele per realizzare i grandi murales contemporanei. È il caso dell’opera di Guerrilla Spam in via degli Equi, divisa idealmente in tre parti e che rappresenta una delle opere più imponenti ad oggi realizzate nel quartiere. La parte sinistra del murale è dedicata all’occidente e si ritrovano i simboli del bombardamento di Roma del ’43, mentre la parte destra è dedicata al Medio Oriente, per ricordare le attuali guerre in corso. Nella parte centrale la grande figura accoglie all’interno del suo corpo tutti i popoli della terra, una sorta di Madonna nera o Madre-terra, a cui corrisponde il nodo di Salomone: simbolo di continuità e unione tra i popoli. Guerrilla Spam si serve di metafore, spunti e riferimenti, legati al luogo e non, per riflettere sull’attuale periodo storico sottolineando le atrocità e l’assurdità di ogni tipo di conflitto armato, a prescindere da epoca o luogo.
Opera simile negli intenti è “C’è posto per tutti, nessuno escluso”, realizzata da Luogo Comune in via dei Luceri. Nelle figure sono rappresentate caratteristiche differenti, tutti sembrano accumunati dalle diversità etniche o generazionali. L’idea è quella di rappresentare le associazioni, gli spazi sociali autogestiti e le realtà che rappresentano gli attori sociali più attivi del territorio. Luogo Comune fa riferimento a Nuovo Cinema Palazzo, Spazio Esc, Atletico Popolare San Lorenzo, che ogni giorno combattono contro il fascismo, il razzismo, il sessismo ma il cui ruolo è spesso al centro di complessi e delicati dialoghi con istituzioni e cittadini.
San Lorenzo è storicamente un quartiere attivo socialmente e sensibile a certi temi, negli ultimi anni anche le opere di Street art hanno cercato di educare riguardo il problema della violenza di genere. In un’area circoscritta di pochi metri, tra via dei Sardi e via dei Sabelli sono state realizzate molte opere per celebrare la figura femminile. Nel 2018 Luca Ximenes, in arte Desx, ha dato vita a “Mai più violenza sulle donne” in cui quattro figure dai corpi evanescenti si tengono per mano, fluttuano come se fossero presenti ed assenti allo stesso momento. Molto significativa è la pittura del 2012 in cui 107 silhouette sono dipinte sul muro
perimetrale del campo da calcio della zona. Ad una prima vista non comunicano il senso di tragicità insito nell’opera: ogni sagoma corrisponde ad una delle 107 donne uccise dal 1° gennaio al 24 novembre 2012 in Italia, vittime di femminicidio.
Le donne e numerose bambine sono anche le protagoniste del murale di Alice Pasquini in via dei Sabelli. Il senso di quest’opera è però più sognante: il titolo “La strada la trovi da te” rimanda ad uno sguardo positivo sul futuro. Tipiche del suo repertorio sono le figure femminili irriverenti e curiose, ritratte in atteggiamenti quotidiani e naturali: due innamorati che si baciano, una bambina sul monopattino, un aquilone che vola, il tutto tenuto insieme da una donna che disegna a matita queste immagini. Alicè sceglie i propri soggetti per contrastare la banalizzazione del corpo femminile tipica delle immagini contemporanee e lo fa in sintonia con il paesaggio circostante, utilizzando l’arancione, ispirandosi e riprendendo la tinta degli edifici della zona.
Molte delle opere presenti sui muri di San Lorenzo hanno significati profondi e fortemente legati alla storia, alle tradizioni e ai simboli del quartiere, segno di particolare attenzione da parte degli autori al dialogo tra l’opera e il tessuto visivo ma soprattutto sociale di questo territorio. Purtroppo in alcuni casi ciò non avviene e risulta chiaro che le finalità sono tutt’altre: inevitabilmente le immagini, puramente decorative, restano completamente sconnesse dal contesto, svelando in alcuni casi le ragioni opportunistiche e speculative che le hanno generate.

Il Pastificio Cerere. La fabbrica che si fece ateliers
Nell’opinione pubblica, quando si parla del binomio arte/quartiere di San Lorenzo viene subito alla mente il Pastificio Cerere. L’edificio, in via degli Ausoni, tra via Tiburtina e Piazza dei Sanniti, fin dalla sua nascita è strettamente legato al contesto del luogo.
Nato da alcune modifiche apportate dall’ingegner Pietro Satti a due corpi di fabbrica già esistenti, la struttura apre le porte per la prima volta nel 1905 come Molino e Pastificio intitolato a Cerere, dea delle messi. La storia industriale dello stabile prosegue fino al 1960 quando, con la chiusura definitiva, si dà il via alla sua riconversione che si inserisce nel processo genetico del quartiere.
Dopo la sua dismissione, Felicina Ceci figlia del proprietario dell’ex fabbrica Pietro Ceci, insieme alla sorella Adriana, incomincia ad affittare alcuni dei locali come magazzini di calzature, vestiario e medicinali. È solo nel 1973 però, che il più importante reperto di archeologia industriale di San Lorenzo inizia la sua vera riconversione: da fabbrica a laboratorio artistico. In quell’anno infatti il Pastificio inizia ad accogliere artisti emergenti: Nunzio Di Stefano, appena diciannovenne, è il primo a stabilirvisi con il proprio studio. La signora Ceci, già amica del futurista Giacomo Balla, è lieta di accogliere un artista nei suoi ambienti e incoraggia anche altri arrivi di questo tipo. Nunzio occupando inizialmente l’edificio con dei compagni sceglie come suo studio una stanza nell’ala sinistra all’ultimo piano.
La scelta del posizionamento d’altronde è imposta dal fatto che quella all’epoca è l’unica porzione dell’edificio ad avere il pavimento. Al suo interno permangono le vesti industriali e la sua storia risuona ancora nell’ampia chiostrina, nei macchinari metallici, nei montacarichi utilizzati per spostarsi tra i vari piani, tra le passerelle e nei ballatoi. A distanza di pochi anni però per motivi vari l’artista si ritrova da solo; inizia così a cercare delle nuove personalità con cui condividere lo spazio. È allora che all’accademia di Belle Arti, dove frequenta il corso di scenografia di Toti Scialoja, raccontando di questo luogo con ampi spazi luminosi, conosce Dessì che lo mette in contatto con un suo amico in cerca di un luogo dove stabilirsi: Giuseppe Gallo.

È così che nel 1977 quest’ultimo prende sede nell’Ex Pastificio e inizia a condividere lo studio con Nunzio. Grazie a questa nuova presenza anche Gianni Dessì comincia a frequentare l’edificio e nell’arco di poco tempo vi si trasferisce bonificando una porzione del quarto piano. Dopo poco anche il terzo piano viene ristrutturato grazie all’arrivo di Bruno Ceccobelli e Marco Tirelli. Nel 1981 anche Pizzi Cannella inizia a frequentare il Pastificio Cerere perlopiù come ospite di Nunzio e, affascinato da questo luogo, decide di insediarvisi anche lui. Quest’ultimo d’altronde sostiene che trovandosi tra l’università, la stazione, l’ospedale e il cimitero, ossia quei luoghi rappresentanti i momenti cruciali della vita, essere nel quartiere di San Lorenzo e più nello specifico al Pastificio è come trovarsi al centro del mondo.
Pur condividendo gli stessi spazi, gli artisti comunque non sono uniti da alcun manifesto; il loro è un sodalizio tra personalità che conoscono la propria vocazione e cercano degli interlocutori coinvolti nella stessa pratica del fare, con i quali poter aprire un confronto ma non un lavoro comune. Per questo è da ritenere assai controversa la definizione che negli anni li ha etichettati come gli artisti della “Scuola di San Lorenzo”. Se da una parte non si trova immediato riscontro nell’identità eterogenea del gruppo, dall’altra l’appartenenza al luogo è innegabile. La scelta dell’edificio come luogo di residenza e lavoro infatti avviene in modo del tutto spontaneo; è il risultato di convergenze, amicizie, sodalizi e matrici comuni vissute negli anni precedenti come il corso all’accademia di Toti Scialoja, l’esperienza de La Stanza e la “condivisione” di alcuni galleristi come Gian Enzo Sperone, Ugo Ferranti e Fabio Sargentini.
È con la mostra Ateliers del 1984, promossa dal sindaco Giulio Carlo Argan e dall’assessore alla cultura Renato Nicolini, e curata da un allora giovane Achille Bonito Oliva, che le porte del Pastificio vengono spalancate e gli spazi creativi aperti al grande pubblico, che viene a conoscere e toccare con mano l’esperienza che sta prendendo piede nel quartiere. L’esposizione, ricordata come un evento straordinario, si svolge al di fuori da ogni schema predefinito: non sono le opere ad uscire per approdare sui muri di una galleria ma è la gente che va a “trovarle” negli studi.
In questa occasione, inoltre, per assecondare una consuetudine del curatore, che più di una volta aveva scelto l’immagine di un’opera del passato per identificare le sue mostre di arte contemporanea, il 15 dicembre 1983 viene scattata una foto di gruppo. Quest’ultima si ispira al dipinto di Courbet rifiutato al Salon del 1855, che lo stesso autore aveva intitolato Atelier du peintre, allégorie réelle déterminant une phase de sept années de ma vie artistique. Come avviene nel dipinto così anche nello scatto di quell’anno tra i sessantatré personaggi immortalati vi sono artisti, critici, storici dell’arte, scrittori, editori, filosofi, amici e persino due cani, quasi a voler sottolineare l’affermazione di un soggetto collettivo.
La fabbrica di San Lorenzo dagli anni Settanta in poi, come è stato già detto, si è trasformata dunque in un centro propulsore di arte contemporanea. Nel corso del tempo, oltre agli artisti storici molti pittori, scultori, critici, galleristi, intellettuali ed esponenti del mondo dello spettacolo hanno trovato casa tra queste mura e hanno fatto sì che quel processo di condivisione iniziato negli anni Settanta, per caso, continuasse fino ai giorni nostri. Si ricorda per esempio la nascita nel 1986 del “Centro di Cultura Ausoni” gestito dal critico Italo Mussa e Arnaldo Romani Brizzi, entrambi sostenitori della pittura colta, una pittura figurativa che implica il ritorno ad iconografie e tecniche esecutive tradizionali; l’instaurazione nel 1993 dello spazio espositivo “Studio Aperto” a cura di Luigi Campanelli e nel 1995 della galleria di Pino Casagrande. È solo del 2002 invece l’idea di dotare l’edificio di una Fondazione, poi nata nel 2005 per volere del suo presidente Flavio Misciattelli e che vede oggi Marcello Smarrelli come direttore artistico e Claudia Cavalieri come coordinatrice delle mostre.

La galleria d’arte come vettore. Intervista a Gilda Lavia
La galleria Gilda Lavia è presente nel quartiere di San Lorenzo dal 2018 e negli anni è divenuta un punto di riferimento per il territorio. Nella nostra intervista, la gallerista ci racconta il dietro le quinte delle ultime esposizioni e la sua visione sul mondo dell’arte.
Dal 2018 prende vita nel quartiere di San Lorenzo la sua omonima galleria, volta alla promozione di artisti emergenti e non, italiani ed esteri. Come mai, nonostante le sue origini toscane, ha scelto di aprire la sua galleria a Roma e in particolare nel quartiere di San Lorenzo? Quanto crede sia importante il ruolo delle gallerie d’arte su questo territorio?
Sono arrivata a Roma per ultimare i miei studi in ambito cinematografico ed ho iniziato subito dopo a lavorare nello stesso settore come coordinatrice di produzione. Dopo sette anni ho scelto di rimanere in quella che ormai consideravo la mia città e di dare vita a ciò che mi appassionava ed è nata galleria Gilda Lavia. Credo che San Lorenzo sia uno dei quartieri storici più interessanti a Roma, dove l’arte ha sempre avuto grande spazio. Un quartiere giovane ed innovativo grazie alla presenza di una delle più importanti Università italiane e alla nascità, negli anni ’80, della “Scuola di San Lorenzo”. Penso che ci sarà una forte possibilità di assistere, in un prossimo futuro, alla nascita di nuovi spazi dedicati all’arte.

La sua ricerca di artisti si concentra prevalentemente su coloro che lavorano attraverso una ricerca concettuale, artisti che pongono delle riflessioni sulla nostra società, analizzandola sotto declinazioni differenti. Come mai ha fatto questa scelta? Secondo la sua visione qual è il ruolo dell’arte in ambito sociale?
Mi piace sottolineare sempre che, a mio avviso, “l’arte debba servire a qualcosa”. Quando una persona che visita una mostra in galleria torna a casa arricchita e stimolata alla riflessione, il mio ruolo ha avuto un senso. Credo che questa sia la missione del gallerista per la società, un piccolo contributo che con il tempo può sicuramnte portare a qualcosa di buono non solo per l’artista ma anche per la comuità.

Nella retrospettiva in corso in galleria “A Lâmina e a Língua” la prima mostra personale in Italia dell’artista e danzatrice Élle de Bernardini, viene affrontata la tematica della condizione delle persone trans, che in Brasile, paese di origine dell’artista, subiscono forti discriminazioni e hanno un’aspettativa di vita molto bassa. In particolare, nell’opera Operação Tarântula si fa riferimento ad un’operazione organizzata nel 1987 dalla polizia di Stato di San Paolo contro le persone trans, le quali tenevano le lame delle lamette sotto la lingua per difendersi. La mostra lancia un messaggio importante, ci obbliga a prendere atto di una situazione forse non così lontana da noi, quale impatto secondo lei possono avere o dovrebbero avere tali retrospettive sul pubblico in galleria?
Ho constatato che molte persone non erano al corrente delle condizioni subite dalla comunità trans in Brasile. Il luogo comune vuole che queste persone siano ben accette nel loro paese ed invece, ancora oggi, ogni due giorni una persona trans muore in Brasile perchè uccisa. Spero davvero che mostre come queste siano uno spunto di riflessione per chi le fruisce. “A Lâmina e a Língua” è un’esibizione di forte impatto che credo non passerà inosservata proprio per il tema trattato.

Qual è secondo lei oggi il ruolo della galleria d’arte e soprattutto del gallerista nel sistema complesso dell’arte?
Come già anticipato precedentemente, credo fortemente nell’utilità dell’arte. Che abbia un contenuto sociale, di denuncia, di protesta o semplicemente di pura bellezza, quello che l’arte deve fare è raccontare. La galleria è quel vettore tramite il quale l’artista può esprimersi e quindi arrivare a tutto il pubblico interessato. Il gallerista deve solo aiutare questo processo.
In un periodo storico in cui è così complesso viaggiare e conoscere nuove realtà, come ha dovuto evolversi la galleria per scoprire nuovi artisti e opere d’arte e quali sono le modalità con cui sceglie gli artisti?
Ovviamente la rete è stata assolutamente di supporto in un periodo in cui muoversi era impossibile. Trovo anche interessante scoprire il lavoro degli artisti tramite gli occhi del curatore, a volte sono proprio loro a trovare tematiche e significati che forse neppure l’artista stesso coglie subito. Cerco sempre di seguire una stessa linea nella scelta dell’artista, è importante la tematica che tratta e il modo con cui si esprime ma l’elemento fondamentale che non deve mancare è l’emozione.

San Lorenzo negli anni Settanta
San Lorenzo non è sempre stato un quartiere così florido artisticamente, ad oggi conta circa sessanta studi d’artista, dieci gallerie e trenta opere di street art, ma tra gli anni Sessanta e Settanta gli artisti a scegliere questo quartiere come luogo per il proprio studio non furono molti.
La Roma di quegli anni cominciava a veder vacillare le certezze del boom economico, tra le contestazioni studentesche e le tensioni politiche, il panorama urbano cominciava a subire grandi trasformazioni. San Lorenzo non faceva eccezione, la presenza dell’università richiamava molti studenti, non solo da tutta Italia ma provenienti da diverse parti del mondo. Il quartiere iniziava a veder cambiare la sua storica fisionomia composta da artigiani e operai che trovavano lavoro nelle fabbriche.
Come ci ha raccontato Alì Assaf, uno dei primi artisti a trasferirsi nel quartiere ed uno dei pochi ad essere rimasti, l’università era frequentata non solo da italiani ma anche palestinesi, greci e argentini, un movimento di studenti che creava uno spazio per un ricco scambio internazionale. Assaf stesso è nato in Iraq, dove ha studiato presso l’Accademia di Belle Arti di Baghdad, per poi continuare gli studi all’Accademia di Belle Arti di Roma dove si è diplomato nel 1977. Si è trasferito a San Lorenzo nel febbraio del 1975, in uno studio in via dei Volsci, insieme ad altri due giovani studenti, che però hanno presto lasciato il quartiere.
«C’erano anche artisti che abitavano in quella zona, vicino l’Accademia, e andavamo lì almeno gli anni degli studi. La mattina andavo in Accademia, andavamo al bar, poi tornavamo per lavorare a San Lorenzo ma di pomeriggio ci ritrovavamo al centro»così racconta la sua esperienza Alì Assaf dei primi anni Settanta, divisa tra i corsi accademici e il lavoro nel suo studio a San Lorenzo. Al contrario di oggi, in quel periodo la zona non aveva luoghi d’incontro per poter discutere, esporre o da visitare; i locali per confrontarsi erano principalmente osterie e pochissimi bar, tra cui lo storico bar Marani.
La scelta del quartiere come base per il proprio studio avvenne per ragioni economiche e per la sua vicinanza al centro, il punto di ritrovo, però, restava Piazza del Popolo. Il Caffè Rosati e la vicina galleria di Plinio De Martis, la Tartaruga, la libreria Al Ferro di Cavallo e l’Accademia di Belle Arti in via di Ripetta, fecero del tridente un punto culturale importantissimo; gli artisti e i poeti si incontravano lì, era facile vedere discutere i membri della Scuola di Piazza del Popolo, ma anche Guttuso, Perilli, Novelli e così via. Proprio dal centro, tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta, cominciava la migrazione degli artisti verso la periferia e San Lorenzo, ricca di grandi spazi, dovuti al suo passato industriale, si addiceva alla pratica artistica e alle necessità degli studenti.

Gli artisti però non lasciavano il centro solo per motivi pratici ed economici, ma anche politici. Ad esempio il pittore Angelo Caligaris e lo stampatore Luigi Campanelli trasferirono oltre le Mura aureliane le loro attività proprio per allontanarsi dalla “dittatura delle gallerie” . Era dunque un atto cosciente, manifestato anche in comunicati redatti per esprimere i motivi del loro allontanarsi dal centro, dall’arte “ufficiale”, e della loro esigenza di creare nuovi spazi. A San Lorenzo, Caligaris e Campanelli fondarono Laboratorio 1 N, con sede al quinto piano di via degli Ausoni 3, prendendo il posto di un gruppo teatrale chiamato La Stanza. Per questi giovani artisti erano gli anni della sperimentazione, anni in cui organizzarono a San Lorenzo le prime mostre e iniziative. Lo spostarsi verso quella che allora era una periferia, lasciando il centro dello scambio dell’arte a Roma, era un gesto non compreso da molti, come pure per Renato Guttuso che sconsigliò al giovane Caligaris di trasferirsi in un quartiere che era per lo più popolato da studenti e dove mancava una rete di artisti e gallerie.
Sia Caligaris che Campanelli si stabilirono nella zona durante i primi anni Settanta, quest’ultimo aveva inizialmente preso uno studio in via dei Marsi, di fronte l’edificio che oggi accoglie la facoltà di Psicologia dell’Università la Sapienza e che un tempo ospitava la fabbrica di birra, di cui ancora oggi si può osservare la ciminiera, a testimonianza della vita industriale del quartiere. In questo studio portava avanti la sua attività serigrafica, mantenendo contatti anche con la serigrafia di Roberto Federici, trasferitosi a San Lorenzo anche lui nei primi anni Settanta e ancora attivo ad oggi nello stesso studio. Angelo Caligaris, invece, ha cambiato diversi studi, passando per Campo de Fiori e Piazza Navona prima di arrivare a stabilirsi a San Lorenzo. In seguito alla sua attività con Laboratorio 1 N, lascia la propria carriera di pittore per dedicarsi alla fotografia, lavorando per il cinema e per importanti riviste.
La sua attività di fotografo lo ha portato, come da lui sostenuto, ad avere “tanto successo da fondare la Scuola Romana di Fotografia con Francesco Forte, che nel 1982 era stato ministro dell’economia, e con Duccio Trombadori”, che era nipote del pittore romano Francesco e figlio del critico d’arte Antonello; la scuola manterrà la sua sede a San Lorenzo per poi trasferirsi nel quartiere romano Parioli e solo dopo nella sua sede definitiva di Pietralata.
Il quartiere, prima della mostra “Ateliers” del 1984 curata da Achille Bonito Oliva e la fondazione della Nuova Scuola Romana, sembra essere stato terreno fertile per giovani studenti che avevano necessità di grandi spazi e di sperimentare, per potersi affermare lontano dal mondo “ufficiale” dell’arte. A sottolineare questa tendenza ricordiamo che durante il suo soggiorno romano, tra il 1975 e il 1979, la fotografa Francesca Woodman si trattenne a San Lorenzo, dove scattò anche alcune delle sue famosissime fotografie proprio in via degli Ausoni 7, nell’edificio che ospita oggi la Fondazione Pastificio Cerere.
Questi giovani artisti ancora studenti, che decisero di lasciare il centro storico, in maniera del tutto spontanea, sfruttando le possibilità che il quartiere offriva, sia a livello culturale che sociale, gettarono le basi per quello che San Lorenzo sarebbe diventata successivamente, una realtà artistica di riferimento per l’intera città.

Industria, politica e arte: la storia di un quartiere che osa trasformarsi
Il quartiere San Lorenzo è uno tra i più ricchi di storia della capitale, bombardato durante la Seconda Guerra Mondiale ha subito nel corso degli anni innumerevoli trasformazioni, fino ad arrivare ai nostri giorni, momento in cui viene considerato uno dei maggiori centri artistici di Roma. Questi cambiamenti hanno investito numerosi luoghi del quartiere, tra cui capannoni industriali e laboratori, nati attorno alla dogana e ai cantieri di costruzione della nuova Roma Industriale. Questi spazi non hanno subito passivamente lo scorrere del tempo ma sono stati attori principali dell’evoluzione di quello che sarebbe divenuto un vivace polo artistico.
Si tratta di luoghi che hanno visto passare e iscriversi al loro interno la storia di uomini e donne che ha segnato profondamente il territorio italiano. Quello che ci raccontano mura e strade di San Lorenzo è una grande voglia di innovarsi e di mettersi in gioco: per la fine di ogni attività si apre un nuovo capitolo della storia, qui gli spazi non restano abbandonati ma si innovano e rinnovano seguendo lo scorrere del tempo e del presente. La situazione in Italia alla fine degli anni Sessanta segna quella che verrà definita la stagione degli anni di piombo che produsse un’estremizzazione della politica, portando a veri atti di violenza e terrorismo. Il quartiere stesso, da sempre considerato roccaforte della sinistra, è stato uno dei protagonisti di questo periodo e diverse sono le realtà presenti a conferma di questa connotazione, ne è un esempio la sede della redazione romana del giornale l’Unità.
In questi anni la cronaca nera si insinua spesso tra le strade san lorenzine come ricordano bene gli abitanti di Via dei Marsi. Durante la messa in onda della trasmissione RADIODONNA, il 9 gennaio 1979 alle 10:00, degli uomini in passamontagna fecero irruzione nella sede di Radio città Futura: si trattava di un commando dei Nar, Nuclei armati rivoluzionari, guidati da Valerio Fioravanti. Vennero ferite cinque redattrici dal fuoco dei mitra, bombe molotov vennero lanciate contro gli impianti che presero fuoco rendendo difficoltosa la fuga dei feriti. Di grande impatto è il racconto della sopravvissuta Nunni Miolli: “Quel giorno si parlava di contraccezione. Io ero al microfono. Entrano questi uomini armati e col passamontagna e come prima cosa mi lanciano addosso una molotov. Fortuna il golf che mi ha tirato la compagna Gabriella altrimenti sarei rimasta cieca. Poi ho sentito una sventagliata di mitra. Le compagne sono morte – ho pensato – le hanno ammazzate tutte! Adesso finiscono anche me”. Le parole della donna rendono tangibile il terrore vissuto in quegli anni in molteplici città italiane. Nonostante lo stabile fosse segnato dalla storia degli anni più bui del nostro paese, dopo anni di chiusura è tornato ad avere una nuova vita; nel 2014 infatti viene fondata da Carlo Maria Lolli Ghetti ed Eleonora Aloise la White Noise Gallery, che resterà nello spazio di Via dei Marsi fino al 2018 quando si trasferirà in Via della Seggiola.

Interessante è il collegamento tra la ex sede della radio e il fenomeno del rumore bianco da cui prende il nome la galleria, ovvero quello che viene definito dal neuroscienziato Seth Horowitz un muro di energia sonora senza schemi: si tratta di un suono a bassa frequenza che rilassa e favorisce la concentrazione, sicuramente opposto al chiasso delle trasmissioni di Radio Città Futura, che proponevano per l’epoca, temi scottanti ed avanguardisti. Un altro luogo di estremo interesse sempre su via dei Marsi, situato al civico 19, è lo studio di Roberto Federici. Inizialmente lo spazio era di natura industriale, al suo interno si trovava negli anni Cinquanta la Romana Dolciaria con la sua produzione di panettoni, i segni di questa presenza sono ancora tangibili nell’architettura dello spazio e della grande canna fumaria. Federici ci ha raccontato di essersi trasferito in questo spazio nel 1972, poiché a San Lorenzo si trovava la sede di Lotta Continua, quando ancora non esisteva la diffusione del giornale a livello nazionale.
Era per Federici l’occasione di mettersi in gioco professionalmente attraverso l’utilizzo della tecnica della stampa, aprendo una serigrafia per finanziare il giornale proprio in quei locali; già da prima l’artista frequentava infatti la litografia Bulla e proprio lì conobbe moltissimi artisti come Gian Paolo Berto o Piero Dorazio. Il fatto che egli collaborasse con un’organizzazione politica di sinistra avvicinava a lui gli artisti, felici di aiutarlo. Per finanziare il giornale, in particolare, venivano richiesti agli artisti dei loro disegni originali, di cui Federici realizzava delle stampe ad edizione limitata: 50 copie rimanevano all’artista e 50 al giornale. Innumerevoli sono gli artisti che hanno contribuito al finanziamento della pubblicazione, tra di essi ricordiamo Guttuso, Castellani e Angeli. Differenti lunghezze di vedute hanno presto portato Federici a distaccarsi dalla realtà di Lotta Continua, facendo dello spazio di Via dei Marsi il suo studio personale dove ancora oggi vive e lavora.
Questo ambiente ha dunque inscritta al proprio interno la storia stessa delle trasformazioni del quartiere che, da luogo prettamente industriale, si è trasformato in un baluardo rosso della politica fino a diventare un motore pulsante dell’arte.
Al numero 18 di via dei Lucani, dove risiedeva una vecchia azienda locale produttrice di ombrelloni è nato invece l’artist-run space /Ombrelloni, che racchiude lo studio di sei artisti, due collettivi, una project room, una falegnameria e uno spazio dedicato al design. Oggi all’interno di questo sito si realizzano anche eventi, talk e residenze.
Analoga è la realtà di via Tiburtina 213, da pochi anni abitati da numerosi artisti. I loro studi hanno dato nuova vita agli immobili che fino a poco fa ospitavano un’industria siderurgica e a parte del palazzo conosciuto da tutti come “Palazzo Decorato”, per via della mescolanza di stili da cui è composto. La palazzina fu fatta costruire da Giuseppe Maria Sartorio, scultore particolarmente famoso per la produzione di statue cimiteriali, e fu adibita come sua officina e scuola per scultori. Non è un caso che l’edificio e l’adiacente fabbrica fossero ubicati nei pressi del cimitero del Verano, che da sempre ha favorito la presenza di botteghe artigiane come quelle di marmisti e falegnami.
Queste e molte altre realtà sottolineano la nascita di San Lorenzo come quartiere popolare e operaio, infatti per lungo tempo è stato caratterizzato da molte attività artigianali e fabbriche che davano lavoro alla popolazione, è per questo un luogo che si presta oggi ad ospitare studi d’artista poiché ricco di grandi spazi, spesso situati al pian terreno e dotati di ampi accessi. Quello che emerge osservando queste trasformazioni è la grande capacità adattiva del quartiere e la grande potenza dell’arte che, anche in luoghi dalle storie quanto mai complesse ed a volte difficili, riesce a dar vita ad esperienze virtuose che hanno portato San Lorenzo ad essere oggi un punto di riferimento per l’arte a Roma e non solo.

Tra arte e neuroscienze, intervista a Numero Cromatico
Numero Cromatico è un collettivo artistico nato nel 2011, composto da ricercatori provenienti dal mondo delle arti visive e delle neuroscienze, che fonda la propria ricerca su un’impostazione interdisciplinare. Nella nostra intervista abbiamo provato a conoscerli meglio…
Proviamo a definire Numero Cromatico. Vi presentate come gruppo di ricercatori provenienti dal mondo delle arti visive e delle neuroscienze che parte da un approccio scientifico all’arte con particolare attenzione alle più recenti scoperte neuroscientifiche: cosa si cela dietro questo Manifesto? Qual è, secondo voi, il rapporto che intercorre tra arte e neuroscienze?
La dichiarazione che citi nella domanda evidenzia alcune peculiarità fondamentali di Numero Cromatico che necessitano di un approfondimento. Il collettivo è composto da un gruppo di persone che utilizzano nella ricerca e nella produzione artistica conoscenze provenienti da diverse discipline e in particolare dalle neuroscienze. Questo determina un vero e proprio approccio interdisciplinare allo studio dell’evento estetico.
Questo tipo di approccio è però un modus operandi che ritroviamo in tutti gli artisti del passato che oggi ricordiamo. Essi sono stati tutti scienziati della forma, del colore e, più in generale, studiosi dei meccanismi della percezione umana. Lo hanno fatto confrontandosi, in ogni epoca, con le più avanzate ricerche del loro tempo: geometria, matematica, fisica della visione, anatomia, filosofia e molto altro.
Il rapporto, ma più precisamente la coesistenza, tra mondo umanistico e mondo scientifico è qualcosa di solido, antico e radicato nella nostra cultura, nonostante oggi si divulghi ancora il malinteso “degli opposti”.
Per concludere e dare una definizione più precisa: Numero Cromatico è quindi un collettivo che porta avanti un approccio interdisciplinare che integra i più avanzati studi sui fenomeni della realtà. Tra questi studi troviamo, ad esempio, quelli afferenti alla neuroestetica che è ad oggi una delle più avanzate discipline per comprendere e indagare i meccanismi di funzionamento del cervello umano in relazione all’arte.

Oltre a questa tematica per voi fondante, ci sono altri temi che caratterizzano la vostra poetica?
Le neuroscienze e l’approccio interdisciplinare non sono temi della nostra poetica, ma strumenti teorici e metodologici. In realtà non abbiamo specifiche tematiche che caratterizzano la nostra ricerca ma una serie di principi estetici che seguiamo nella nostra produzione. Certo, in tutto il nostro lavoro artistico potresti intravedere dei topoi ricorrenti della storia dell’uomo, ma questi non rispondono mai alle folate di vento della moda. Secondo noi occuparsi, o dichiarare di occuparsi, di particolari tematiche sociali e di tendenza può essere utile a meccanismi curatoriali, politici o di mercato, ma è esteticamente molto fragile. I grandi artisti del passato, anche del passato recente, si sono occupati di stabilire e seguire precisi parametri estetici e non di rispondere a determinati temi provvisori. Prova a pensarci: Policleto, Giotto, Michelangelo, Leon Battista Alberti, Leonardo da Vinci, oppure Georges Seurat, Umberto Boccioni, Kazimir Malevic, Marcel Duchamp, Lucio Fontana, Piero Manzoni, Robert Rauschenberg, Sergio Lombardo, solo per citarne alcuni. Nessuno di questi può essere ridotto ad un tema.
Per noi l’arte è un portale attraverso cui il fruitore immagina, inventa e si fa nuovo, andando a scavare nella propria memoria, mettendo alla prova la propria percezione. Preferiamo che le nostre opere e i nostri progetti stimolino tanti temi quante sono le persone che ne fanno esperienza.

Da Pastificio Cerere a Via Tiburtina 213, ultimamente avete inaugurato un’esposizione presso uno spazio in Via dei Volsci, 165. Da sempre occupate spazi di San Lorenzo, quartiere cui sembrate davvero affezionati. Cosa vi lega a questo territorio?
A San Lorenzo ci siamo trovati per caso. Qualche anno fa, mentre stavamo lasciando il nostro spazio in Via Carlo Caneva, vicino la stazione Tiburtina, si liberò lo studio di Giuseppe Gallo al Pastificio Cerere. Siamo subentrati noi poco dopo. Poi, andando via dal Pastificio a fine 2020, per questioni logistiche abbiamo cercato di non allontanarci troppo dalla zona. Infatti, per caso e per fortuna, abbiamo trovato due posti bellissimi a pochi passi dal nostro vecchio studio. Il primo in via Tiburtina 213, grazie a Paolo Tamburella che aveva recuperato un importante e affascinante fabbricato. Il secondo nell’area degli artigiani marmisti, in via del Volsci 165, che è diventato il nostro Project Space.
Il quartiere è sicuramente un’area storica interessante, caratterizzata da stratificazioni architettoniche e sociali molto peculiari, ma al territorio ci legano motivazioni perlopiù aleatorie.

In pochi anni, dal 2011 ad oggi, avete raggiunto grandi obiettivi, realizzando anche un importante progetto editoriale, Nodes. Da poco avete inaugurato “Tre scenari sulla percezione del tempo” e realizzato il progetto SUPERSTIMOLO, con l’esposizione al Museo MAXXI di Roma. Verso cosa vi dirigete? Qual è il prossimo obiettivo che vorreste raggiungere? Regalateci un piccolo spoiler!
Abbiamo ottenuto importanti riconoscimenti: nel 2019 ad ArtVerona siamo stati nominati migliore realtà indipendente italiana, nel 2020 siamo stati nominati miglior spazio ibrido da Artribune e nel 2021 abbiamo vinto l’Italian Council e altri importanti premi. È un onore per noi, ma questi non sono obiettivi raggiunti, ma riconoscimenti per l’impegno e la dedizione che ogni giorno rivolgiamo all’arte, dedicandole interamente le nostre vite.
Per anni abbiamo perseguito scopi estetici precisi, avendo anche il coraggio dell’impopolarità, visto l’approccio inusuale della nostra ricerca. Non è stato semplice ma oggi il contesto è molto diverso rispetto a dieci anni fa.
Gli obiettivi che abbiamo raggiunto invece sono principalmente due e di matrice immateriale: a) aver preservato una coerenza metodologica e teorica in un contesto artistico in cui il relativismo (farsi portare di qua e di là da qualsiasi evento o tendenza) appare l’unico atteggiamento all’altezza della modernità; b) aver accresciuto e rafforzato il gruppo che oggi è composto da dieci persone che condividono degli ideali estetici e relazionali.

A margine c’è anche un ulteriore obiettivo che riteniamo di aver raggiunto e cioè aver contribuito alla riattivazione di un fermento artistico in città. Sin dal 2018 avevamo iniziato ad incontrare altri artisti e curatori con l’intento di produrre progetti per scoprire ciò che c’era di sommerso o silenzioso. A maggio 2018 infatti coinvolgemmo 8 curatori e storici dell’arte in “La quadratura del cerchio” per capire il contesto curatoriale a Roma. Nel frattempo iniziammo a visitare gli studi di alcuni artisti da coinvolgere in Messinscèna che inaugurammo a maggio 2019. Nello specifico a Messiniscèna hanno partecipato molti degli artisti oggi esponenti dei vari artist-run-space, sia come protagonisti che come pubblico. Messinscèna è stata un’esperienza di grande ispirazione per ciò che è venuto dopo, comprese le “reazioni” alla Quadriennale di qualche tempo più tardi.
Negli ultimi mesi abbiamo inaugurato alcuni progetti per noi molto importanti, alcuni li hai citati. Il progetto SUPERSTIMOLO al MAXXI proseguirà fino a maggio. Lo spazio che abbiamo creato ad hoc nel museo cambierà tre volte nel periodo della mostra e condurremo anche un esperimento di neuroestetica. Mentre la mostra Tre Scenari sulla Percezione del Tempo, nel nostro Project Space a San Lorenzo si concluderà, con il terzo atto, prima dell’estate.
Poi c’è molto altro e vi invitiamo a seguirci. Per il resto il futuro è imprevedibile.

Arte tra linearità e libertà. Intervista a Pietro Ruffo
Pietro Ruffo (Roma, 1978) è uno dei giovani artisti italiani più apprezzati; laureato in architettura all’Università degli Studi Roma Tre, ha vinto nel 2010 il Premio New York con una borsa di ricerca presso l’Italian Academy for Advanced Studies alla Columbia University. L’arte di Ruffo è essenzialmente legata agli elementi base della sua formazione da architetto: il progetto, la carta e il disegno. Nella nostra intervista gli abbiamo chiesto del suo rapporto con il quartiere di San Lorenzo e molto altro…
Il suo studio è al Pastificio Cerere, un luogo fortemente caratterizzato da una connotazione artistica, dove è nata la cosiddetta scuola di San Lorenzo. Lei come si pone in rapporto con questa tradizione con la quale non solo condivide lo stesso spazio ma anche la stessa scena artistica? Sente di appartenere ad una particolare corrente o scuola?
Io sono arrivato a San Lorenzo nel 2003, prima lavoravo in campagna in uno studio isolato. Mi sono trasferito perché il presidente della Fondazione Pastificio Cerere, Flavio Misciattelli, aveva bisogno di qualcuno che gli potesse dare una mano a sistemare alcune parti del palazzo e in cambio mi diede un piccolo studio. Il passaggio dal lavorare in campagna, da solo, al Pastificio Cerere è stato molto importante per me e per il mio lavoro. Qui ho avuto la possibilità di conoscere i maestri che citavi, che in modo estremamente generoso hanno condiviso con me la passione per il loro lavoro e le loro ricerche. Osservando questi artisti ho capito come questo, come qualsiasi altro mestiere, sia un mestiere basato nella quotidianità, che non esiste la favola bohémienne dell’artista che si sveglia di notte e crea di getto un capolavoro. Poi ho conosciuto artisti della mia generazione con cui ho fatto tantissimi progetti, proprio grazie alla Fondazione Pastificio Cerere. San Lorenzo era diventato per me una specie di falansterio, qui trovavo tutto: la mia passione per l’arte, i miei amici, che erano anche loro degli artisti, bar, ristoranti, tutto quello di cui avevo bisogno era qua.
Trasferirmi è stato un cambio netto per me e per il mio lavoro. Inizialmente, infatti, il mio lavoro era legato alle tematiche di mio nonno, Francesco del Drago, un pittore astratto-geometrico, quei primi anni sono stati un po’ nel suo solco. Una volta arrivato qua ho cambiato completamente modo di lavorare, ho iniziato a disegnare molto di più e ad abbandonare un po’ il colore per concentrarmi su temi più legati alle mie passioni – la storia, la società, la politica. Arrivare al pastificio è stata una bellissima esperienza e lo è ancora in questo momento, insomma, è veramente un luogo di grande scambio, ideale per fare questo mestiere.

Una tematica che fa da fil rouge tra tutte le sue opere è il tema della libertà intesa in senso lato come libertà collettiva, spesso contrapposta a quella individuale. In base agli studi condotti alla Columbia University e alla tematica delle migrazioni che sta portando avanti con i suoi lavori più recenti, esiste a suo avviso una condizione in cui queste due realtà possano coesistere?
Il tema della libertà ha impegnato moltissimi anni del mio lavoro e attraverso la passione e la mia ricerca, condotta alla Columbia University grazie ad una borsa di studio, sono riuscito ad approfondirlo studiando alcuni filosofi liberali e intervistando giovani filosofi di varie parti del mondo. La cosa interessante di questo tema è che più lo studi e più la definizione della parola libertà si allontana da te. Perché, come ha spiegato Isaiah Berlin negli anni 60, quando qualcuno pensa di avere la definizione di questo termine libertà nascono i regimi più autoritari. Mi spiego meglio, quando un despota o un leader politico crede di sapere cosa sia la libertà per il proprio popolo fa di tutto per raggiungere questo scopo, e spesso elimina una grande parte di libertà individuale. Quindi, la trappola, il meccanismo distorto del periodo della guerra fredda è stato proprio questo. In un blocco si tendeva verso la libertà individuale esasperata, nell’altro blocco, invece, con la scusa della libertà collettiva si andava verso un regime autoritario.
Ovviamente sono andati avanti rispetto alla guerra fredda e una parola, che risuona nei pensieri dei vari filosofi, è la parola alterità; cioè quando si riesce ad inglobare l’esperienza dell’altro e a farla propria, questo diventa il più grande momento di libertà. Questa parola, alterità, poi, ha molto a che vedere con un altro lavoro che sto portando avanti da molti anni, un’altra ricerca, che è quella sulle migrazioni, come dicevi te. Effettivamente anche qui, quando noi riusciremo ad inglobare l’esperienza di persone che vengono da altre parti del mondo, da altre culture, all’interno della nostra esperienza, quello sarà un accrescimento incredibile per la nostra società. Piano piano sta avvenendo, però c’è bisogno almeno di un’altra generazione, penso. Come ti dicevo, più studiavo questo tema per la sua definizione e più si allontanava, ma in una poesia di Kahlil Gibran, On Freedom, tratta dal libro Il profeta, ho trovato forse le parole più chiare, più belle mai lette sulla libertà. In sintesi il poeta dice che prima di richiedere la libertà all’esterno, da un despota, da un regime autoritario, prima di richiedere quella che si chiama Libertà negativa, cioè la libertà individuale, dovremmo ricercare la libertà all’interno di noi stessi. Perché in realtà, dice Gibran, il despota ce l’abbiamo messo noi sul trono. Effettivamente siamo ancora incastrati in questo meccanismo, siamo molto bravi a manifestare per chiedere la libertà da qualcuno ma siamo molto, molto, più pigri nel cercare libertà all’interno di noi stessi, perché richiede uno sforzo immenso e, anche qua, penso che abbiamo bisogno di un bello scatto di maturità.

Nella sua ultima personale sembra ci sia stato quasi uno spostamento di prospettiva, in questa mostra ha messo al centro temi importanti ed attuali, cosa l’ha influenzata maggiormente, cosa l’ha spinta a verso questa direzione?
Sì, effettivamente hai detto bene, per affrontare il tema delle migrazioni, che è un tema velatamente legato al colonialismo – in quanto i disegni che facevo erano ripresi da geografi francesi, tedeschi, italiani e inglesi che andavano nelle missioni coloniali – ho sempre usato il filtro della storia, perché non essendo un fotoreporter di guerra mi aiutava a vedere le cose con minimo di distacco. Temi come quello delle migrazioni, di cui parliamo molto in questi anni, da quando l’uomo ho messo piede su questo pianeta sono sempre attuali e quindi nella storia, come il tema della libertà, si ripetono. Detto ciò, nella mostra Tidal Wave, che ho fatto subito prima del lockdown alla galleria Lorcan O’Neill, è come se fossi sceso per strada e avessi iniziato a rapportarmi con tutte queste persone, ad ascoltare le loro storie e a cercare di capirle in modo più diretto.
Ci sentiamo tutti minuscoli davanti a temi così importanti come la libertà e le migrazioni, nel senso che sentiamo che nessuno di noi può fare niente, perché sono tematiche troppo grandi, ma questo è un atteggiamento sbagliato. In realtà, basterebbe dedicare anche solo un minuto del proprio tempo ad ascoltare una storia, questo sarebbe già un movimento verso la comprensione e l’interiorizzazione di questi temi, e quindi è quello che ho fatto. Sono sceso per strada, per le strade del Brasile, dove sono stato a vedere le discariche in cui una moltitudine di persone, una sorta di società, cresce e lavora. Sono stato a vedere i migranti che sbarcano in Sicilia, i sindaci che non hanno abbastanza poteri per gestire questo flusso migratorio e quindi si rivolgono all’autorità europea. Poi, nell’ultima parete, ci sono dei ragazzi tra i 15-18 anni, una nuovissima generazione che manifesta per delle politiche ambientali diverse. Sono nati come disegni su carta realizzati a penna e poi li ho dipinti su ceramica, con una tecnica che si chiama terzo fuoco.
Io ho sempre amato gli street artists, ma non sono mai riuscito a fare un pezzo, come viene definito, su un muro. Lavorando sulle carte e lavorando con delle tecniche che richiedono una quantità di tempo per fissare, andrei un po’ in contrasto con lo spirito della street art, però, l’andamento longitudinale di questo lavoro, di questo grande azulejos di 30m, in qualche modo, mi dava proprio l’idea di un pezzo, di un lavoro su un muro. Penso a vari esempi che abbiamo a Roma, uno di quelli che più mi ha marcato è sicuramente quello di Kentridge, Triumphs and Laments, sul Tevere, anche se non so se si possa definire propriamente street art. Un’opera di un’eleganza e una tecnica meravigliosa.

Nelle sue opere si ritrova spesso una dicotomia tra astrologia e scienza cartografica, quasi a voler sottolineare le due nature dell’uomo. Le mappe terrestri, però, non sono mai strumenti oggettivi, ma espressione di una visione personale del mondo. Se dovesse disegnare lei una mappa terrestre come la rappresenterebbe?
Come dicevi tu, non esiste nessun tipo di mappatura che sia strumento oggettivo, l’unica carta geografica terrestre veritiera sarebbe un foglio di carta grande quanto tutto il mondo, e quindi impossibile. I cartografi partono sempre da sé stessi, sin dalle prime carte che conosciamo, quelle dei Babilonesi, al centro viene rappresentato ciò che si conosce e poi va piano piano verso l’ignoto. E quindi, visto che mi piace sempre fare le cose al contrario di come vengono solitamente fatte, forse se dovessi pensare una mia carta geografica dovrei fare proprio il contrario e mettere al centro quello che non conosco, l’ignoto, e pian piano nei bordi periferici, dove di solito c’erano le terre che non si conoscevano, metterei le mie sicurezze. Perché in realtà penso che il lavoro dell’artista, che è il lavoro che faccio, sia proprio questo: cercare di affrontare quotidianamente l’ignoto. Cercare di affrontare quello che non si sa e quello che non si sa fare, altrimenti si rischia di diventare un artigiano e quindi penso che il lavoro dell’artista sia un lavoro che ti porta veramente a sperimentare tecniche, ma soprattutto temi, che non conosci verso i quali però provi un’attrazione. Questo può creare una forte angoscia di non riuscire a fare quello che vorresti, ma questo sentimento, per quello che voglio dire, in realtà non ha un’accezione negativa ma positiva. È proprio questo che metterei l’ignoto al centro della mia carta geografica, e poi pian piano presso i lati periferici le terre più conosciute.
Quali saranno i suoi prossimi progetti?
Ci sono una serie di mostre collettive che sono in atto o che stanno per inaugurare nei prossimi mesi. All’estero ad agosto ha inaugurato una bella mostra itinerante, organizzata dal Ministero degli Affari Esteri, per tutta la via della seta, quindi dalla Cina al Kazakhstan fino ad arrivare in Turchia. Poi, sempre all’estero, c’è una bella mostra collettiva in Giappone per le Olimpiadi e un’altra a San Paolo in Brasile, al Museo di Arte Contemporanea. Farò poi una mostra personale a metà ottobre, alla Biblioteca Apostolica Vaticana, dove cercherò di mettere il rapporto alcune carte geografiche del loro patrimonio con la mia visione sui temi della contemporaneità, che poi sono temi che anche il Vaticano in questi ultimi anni ritiene molto centrali, questa è una cosa molto bella perché mostre al Vaticano di artisti contemporanei non se ne vedono da tanto tempo, sembra quasi una commissione rinascimentale.