
Tra i protagonisti della “Scuola di San Lorenzo“, raccolta attorno all’ex Pastificio Cerere, centro vitale della cultura artistica negli anni Ottanta, Gianni Dessì, ha visto la trasformazione del quartiere con il passare degli anni e nella nostra intervista ci racconta il suo punto di vista sul distretto dell’arte di Roma.
Trasferendo il suo studio presso il Pastificio Cerere ha dato vita, insieme a Nunzio, Ceccobelli, Bianchi, Pizzi Cannella e Tirelli, quella che viene ricordata come “Scuola di San Lorenzo”, che rese l’ex fabbrica il centro propulsore di arte contemporanea che è ancora oggi. Quanti anni è rimasto al Pastificio e come ha visto cambiare il quartiere?
Sono stato a San Lorenzo dagli anni Ottanta fino al 2000, ma il tempo a Roma ha un altro passo. Noi vivevamo là dentro come in una bolla. Eravamo un po’ fuori posto, ma gli abitanti ci hanno accolto bene e con curiosità. C’era molto da sistemare, il posto era fantastico per lavorare: c’erano begli spazi, c’era una bella luce, c’era tutto. Non si può dire che ci sia stato un rapporto con l’esterno del quartiere se non per le esigenze primarie… Il ristorante, la lavanderia e il mercato e qualche artigiano. Il vero contributo del quartiere è stato permetterci di fare quello che volevamo… In quella situazione eravamo come i vermi nel formaggio. Era una situazione in cui ci siamo letteralmente “scavati” il posto. Quando siamo arrivati, il luogo non era solo disabitato… Era abbandonato da quarant’anni. C’erano esempi di macchinari stupendi, di manifattura dei primi anni del Novecento, macchine completamente in legno, di douglas bellissime per lavorare la pasta. Erano ambienti affascinantissimi, ricordo che sia Cecco (Ceccobelli) che Francesca Woodman li usarono per una serie di foto di loro ‘azioni’.
Nonostante l’eterogeneità che ha caratterizzato il gruppo della “Scuola di San Lorenzo”, avete condiviso la scelta del luogo come residenza e lavoro. Com’erano i rapporti tra di voi?
Ci si conosceva tutti, con qualcuno oltre che l’Accademia avevo anche condiviso per anni uno studio a Trastevere. Feci un po’ fatica all’idea di spostarmi, perché Trastevere era un luogo in cui c’era molta circolarità, mentre per me San Lorenzo rappresentava un altrove un po’ indistinto: tutte le cose si svolgevano in centro. Roma era quella, San Lorenzo era un fuori che non si capiva bene, spesso percepito anche come poco sicuro… Ma ci conquistò subito… L’atmosfera popolare animata dalla vicina Università. Era tutta una situazione stimolante: la città ti provava, c’era ogni volta qualcosa a cui dovevi rispondere… Talvolta anche con una presa di posizione. C’era sempre una tensione con cui dovevi misurarti: quella politica, quella generata dal terrorismo, dalla droga, dall’attivismo e c’era ovviamente la tensione artistica. A tutto questo bisognava rispondere anche e soprattutto in modo creativo, vedi la scena del teatro ad esempio che in quei tempi ha incrociato tutto.

L’arte e le gallerie, che c’erano, erano poche ma con il senno di poi hanno sviluppato un lavoro impressionante! Era richiesto uno stare che non ti portava a poltrire ma a rispondere, e per farlo ti dovevi attrezzare lavorando sodo. Per quanto riguarda noi, la nostra amicizia, con alcuni ci siamo conosciuti in Accademia e con qualcuno addirittura prima, al liceo. Siamo un po’ cresciuti insieme. C’è stato, per quel che mi riguarda, prima uno studio a Trastevere, condiviso con Bianchi, Pace e Cecco mentre Giuseppe Gallo lo conoscemmo dopo, quando venne a vedere una mostra che aveva fatto Ceccobelli in centro, vicino Piazza del Popolo. Dopo qualche tempo Nunzio mi disse che cercava qualcuno per condividere lo studio che si trovava in un grande stabile, un’ex fabbrica… Lo dissi a Gallo e finii per farmi trascinare anch’io con loro, alla fine è successo quello che è successo. Sono andate avanti queste cose, dopo un poco arrivò Cecco, già facevamo mostre con la galleria di Ugo Ferranti a Roma e in altre gallerie sparse nel mondo… Dopo aver inizialmente lavorato con il teatro d’avanguardia. La scena era cittadina, nazionale e internazionale: le cose si mischiavano fortemente e c’era circolarità di idee e di presenze. Bisognava esserci e veniva richiesta presenza fisica, non era possibile partecipare virtualmente… Il ‘corpo era richiesto’. In qualche modo anche il linguaggio dell’arte passava proprio attraverso il corpo… Da una parte la body art, dall’altra, l’estrema rarefazione nel concettuale e d’inverso la volontà di materializzazione di una pittura che voleva ritrovare il proprio corpo e prepotentemente presentarlo in scena. Il mio problema si concentrava proprio sul ridare presenza, corpo e densità, per cui dovevo armarmi di cose e contenuti, bisognava provare ad avere reinventandola una struttura.
Nel 2019 il dipartimento di Storia Antropologia Religioni Arti e Spettacolo dell’università La Sapienza ha ideato il progetto “artista in residenza”. Questa iniziativa si è conclusa con l’installazione della sua opera Controluce nell’aula Chabod lo scorso 4 aprile. Le andrebbe di parlarci di questa iniziativa?
Mi hanno chiesto di essere l’artist in residence e mi sono domandato quale potesse essere il suo ruolo, dopo vari colloqui ci siamo detti che bisognava intenderla come una presenza che potesse in qualche modo tessere relazioni per contribuire a intrecciare e mettere insieme cose atte a fornire spunti creativi. Avevamo iniziato a elaborare una serie di progetti e programmi… Una costellazione di interventi che vedevano coinvolti artisti, musicisti e performer ma nel frattempo è arrivato il Covid ed ha stroncato tutto. Sono passati quasi tre anni e tutto quello che avevamo pensato ed elaborato è andato a finire nell’impossibilità di praticarlo. Il direttore del dipartimento, Gaetano Lettieri, allora mi ha suggerito che avrei potuto forse lasciare un segno… Donare un’opera a testimonianza di un passaggio… Mi ha fatto vedere varie possibilità, alla fine mi è parso interessante un luogo fortemente neutro, funzionale… un’aula grande, né bella né brutta, l’unica cosa che segnava quello spazio sono le sedie blu tutte rivolte verso la cattedra. Quando la vedi spoglia non puoi non immaginarla con gli individui che la animeranno prendendoci posto, siederanno e qualcun altro, di maggiore età, comincerà a sviluppare quel complesso processo che porterà alla loro formazione… Metaforicamente dovranno cominciare a prendere su di sé la responsabilità del ‘colore’, dello sviluppo possibile di una identità. In quei giorni mi era tornata indietro un’opera da una mostra a San Paolo del Brasile, composta da un ovale dipinto su tavola posto su una superficie di colore giallo dipinta direttamente sul muro. Sull’ovale poi, il cui dinamismo è amplificato dal non essere né appeso né dipinto, rispettando le ortogonali, è appena tracciata in nero la presenza di una figura (di fronte? di dietro?).
L’immagine trovava nella posizione frontale sulla parete la giusta collocazione perché ribadiva le due posizioni dei distinti e opposti punti di vista dell’assetto con cui era funzionalizzato lo spazio (cattedra/studenti). Ho mutato il colore passandolo dal giallo all’azzurro dei sedili usandolo per dipingere un lungo rettangolo orizzontale della stessa misura occupata dalle sedute e apponendoci al centro la tavola ovale. Se c’è sempre un problema di visione nell’approccio del pittore con l’immagine, c’è sempre in chi guarda la volontà di un rispecchiamento. Mi sembrava fosse possibile una tangenza con le mie Camere Pictae, in cui è il colore ad ‘abitare’ lo spazio e a riconfigurarlo mentre noi spettatori, esclusi fisicamente, ne partecipiamo solo con lo sguardo. In questo caso invece mi si proponeva la possibilità di concepirne una “praticabile”, con un “dentro”, in cui il colore non ridisegnava la percezione dello spazio, ma lo compiva solamente offrendo una ‘messa in forma’ a cercare un’estetica della funzione. Spero gli studenti si sentano di più a casa loro dopo l’installazione di quest’opera.
Tale progetto prevede altre operazioni?
No è compiuto… Spero che in ‘azione’ ci sia l’opera, la sua capacità di accogliere e dar forma… Deve essere l’opera a comunicare con gli studenti sperando aiuti a quello scambio che è alla base di ogni processo formativo. L’immagine nell’ovale è come accecata, non ha un’effigie, non si capisce se mostra un davanti o un dietro, nello stesso tempo però dalla prospettiva della cattedra ci sono un mucchio di persone che sono là con il proprio volto dando le spalle all’opera… Lecito pensare che in certe condizioni magari di controluce dei tratti possano vagare… Spero che possa entrare in funzione quella meccanica propedeutica, quel far sì che chi sta dentro stia meglio e che si confronti con un orizzonte, uno sguardo verso qualcos’altro che possa aprirsi su una prospettiva. Gli studenti hanno l’opera alle spalle, è il professore ad averla di fronte: tutti devono confrontarsi con il fatto che si è là per fare comunità. Le due ‘braccia’ che si allargano e che si affacciano sulle sedie comprendendole servono a immaginarci come comunità. Partono dalla parete per mettere in moto quella volontà di comunicare e di dire. Se il prodigio si compie è solo grazie al coinvolgimento delle persone che guardano altrimenti l’opera è muta, diventa un trofeo. Uno spazio è veramente pubblico se viene definito da una comunità che si incontra e si misura con un fatto, con una creazione, con qualcosa che dovrebbe ambire anche a raccontarla e che quindi trova una dimensione simbolica. È difficile vivere con dei quadri e non farsi cambiare la vita. L’artista non fa che testimoniare un’urgenza che però deve essere accolta… Forse abbiamo creato fin troppe strutture per far sì che questa urgenza venga catturata, presa, riparlata, ripensata. Ho l’impressione che la ‘cornice’ abbia mangiato il quadro. Un po’ bisogna tornare a mettere i puntini sulle “i” e vedere quali sono le cose che fondano e quali sono invece le cose che sono fuse. Dobbiamo rimettere a posto i termini.

Ad oggi San Lorenzo è un quartiere animato da numerose iniziative artistiche, come vede la situazione attuale?
Non sottovaluterei il fatto che questa è una dimostrazione di una certa vitalità, bisogna sfruttarla. Vedo tanto desiderio. Anche voi con questa voglia che esprimete nel crearvi occasioni, mettersi insieme e tessere una tela… Questa serve perché c’è qualcosa che si condivide. Qual è il sogno? Dov’è il riscatto? Questo deve diventare il centro, perché se è vacuo allora si perde e la comunità non cresce, non cresce l’esigenza e non diventa trasferibile l’esperienza. Poi ci vuole pure il tempo che ci vuole. Ogni volta che si fa una cosa, lo spazio deve essere quello dell’arte. Ogni volta bisogna inventarsi la cornice giusta in cui l’opera ha sopravvivenza. Se si fa insieme è meglio, ti diverti, hai dato senso al tuo vivere e al vivere della persona che ti sta vicino: è una microsocietà e ognuno deve poter metterci cose.
Al momento sta lavorando a qualche progetto?
Il progetto in collaborazione con la Sapienza mi ha coinvolto molto. È nato in maniera semplice, ma siamo riusciti a chiuderlo bene. Si sta pensando di fare una pubblicazione intorno a quella giornata che mi è stata dedicata con gli interventi di tanti amici e forse la trascrizione di quella ne diventerà il prologo, a cui seguirà una vera e propria antologia critica degli scritti più importanti che sono stati dedicati alla mia opera. Ho da qualche settimana concluso una mostra abbastanza grande in Toscana e a giugno parteciperò a un’altra a Torino. Dopo due anni di problemi siamo arrivati a mettere il punto e andare a capo.